Mabu ha grandi occhioni azzurri che muove teneramente, chiede come si sente il paziente, gli ricorda il momento della terapia, rileva alcuni parametri, offre suggerimenti di vario genere e propone di mandare le informazioni raccolte al medico curante. Non è un infermiere, ma un robottino in fase di sperimentazione dell’azienda californiana Catalia Health.
Ha una testa tonda poggiata su un corpo rettangolare che contiene un tablet attraverso cui il paziente risponde cliccando su comandi semplici. In un contesto di invecchiamento della popolazione e di carenza di risorse per assistere le persone nelle loro abitazioni, appare uno strumento efficace, oltre che innovativo, ma l’azienda californiana si affretta a precisare che non è pensato per sostituire l’infermiere, non può farlo. Pare evidente per ora. Ma fino a quando?
Il dibattito sull’intelligenza artificiale è caldissimo e la domanda di fondo è: un robot potrà mai possedere l’intelligenza umana? E se ciò avvenisse, potrà rivoltarsi contro il suo creatore?
La mente corre alle scene di Terminator, a 2001 Odissea nello spazio, a Io, robot e a tutti quei film – tanti – che hanno materializzato creativamente la paura che la tecnologia si sostituisca all’uomo o peggio ne provochi l’alienazione o l’autodistruzione.
Il dibattito impazza anche tra i giganti dell’hight tech e ha visto di recente confrontarsi a distanza Elon Musk e Mark Zuckerberg. Il primo, a capo di Tesla e SpaceX, nonché fondatore di PayPal, insomma, uno degli imprenditori più innovativi del mondo, è tra i pessimisti: “Continuo a lanciare i campanelli d’allarme, ma finché le persone non vedranno i robot scendere in strada e uccidere qualcuno non capiranno”, ha detto qualche giorno fa all’associazione nazionale dei governatori americani. Fantasie futuristiche o riflesso di qualcosa che è accaduto nei laboratori in cui sviluppa le automobili senza conducente, o nell’agenzia spaziale privata che ha messo in piedi per andare presto su Marte? Musk non ha argomentato ulteriormente le sue affermazioni, ma ha annunciato che lo farà in un film che uscirà presto.
L’allarmismo di Musk non è isolato. Anche Stephen Hawking, famoso astrofisico inglese, aveva espresso la stessa preoccupazione qualche tempo fa: “quando le macchine supereranno la fase critica e cominceranno a essere capaci di evolversi da sole, non potremo prevedere se i loro obiettivi saranno uguali ai nostri”.
Di parere opposto è un altro dei protagonisti della Silicon Valley, Mark Zuckerberg, patron di Facebook che a seguito dell’uscita di Musk, ha detto di non riuscire a comprendere chi ha una posizione catastrofista rispetto all’intelligenza artificiale, bollandola come “irresponsabile”. La reazione di Musk non si è fatta attendere: “Ne ho parlato con Mark – ha twittato – ma le sue conoscenze in materia sono limitate”. Per ora le schermaglie pubbliche tra i due sono sospese e non c’è modo, per noi poveri mortali, di sapere chi abbia ragione.
Ma le domande rimangono lì tutte e toccano un ampio spettro di problemi. Ad esempio, come porci rispetto a un mondo del lavoro in cui le macchine svolgono sempre meglio le mansioni che realizzano gli uomini e li sostituiscono? Ci stiamo adeguatamente preparando all’interazione uomo-macchina per far fronte alle esigenze di una società sempre più interconnessa? Perché abbiamo iniziato a pensare (temere) una tecnologia come separata dall’umanità che la crea? Con che tipo di coscienza pensiamo di dotare i robot? Siamo lontani dalla possibilità di infondere nelle macchine elementi come l’empatia, la compassione, il coraggio, eppure sentiamo di creare qualcosa che ci assomigli?
In un’epoca di grandi incertezze come questa, l’intelligenza artificiale spinge molti a sperare e moltissimi a sognare. Il tema è affascinante e continuerà a tener banco chissà per quanto. Ma un altro film, capolavoro del genere, Blade Runner di Ridley Scott, suggerisce una domanda finale. La trama è nota: robot perfettamente antropomorfi creati dall’uomo per fare la guerra al suo posto, si ribellano al loro destino e scoprono di desiderare un amore pienamente umano, una vita che non finisca, un significato alla loro esistenza che molti degli uomini in carne e ossa nel film mostrano di non avere più.
La domanda quindi è: non è che in questo dibattito, tra speranze e paure, stiamo dicendo anche che noi umani da tempo rischiamo di vivere come robot allucinati da sogni di dominio, ricchezza, carriera, senza veri sentimenti, desideri profondi, reale compassione, umanità pienamente vissuta?