“Mediterraneo, mare di cristallo” è il taccuino di un viaggio marittimo-letterario realmente compiuto dall’autore grazie a una borsa di studio della fondazione Marc de Montalembert di Parigi (ndr).
Barcellona, il giardino dei silenzi
Da Sète raggiungo Montpellier e qui prendo posto sul treno proveniente da Milano alla volta di Barcellona.
Da quando il regista Cédric Klapich ha girato L’appartamento spagnolo, la capitale della Catalogna si è imposta, nell’immaginario giovanile, come la terra del divertimento: sbronze, notti interminabili, bivacchi. A Barcellona, invece, io cercavo i silenzi. Lo stesso silenzio che ho trovato nel libro Il giardino sul mare di Mercè Rodoreda, nata in questa caliente città nel 1909. Ho trovato il suo libro rovistando tra gli scaffali della biblioteca del Comune dove abito, mentre cercavo nella sezione della letteratura italiana. La segnatura era 863 (letteratura spagnola), ma il libro era tra quelli la cui collocazione è 853 (letteratura italiana). Un errore fatale, una preziosa distrazione del bibliotecario; chissà da quanto tempo sarà stato lì, dimenticato. Mi aveva subito affascinato il titolo: Il giardino sul mare. Il romanzo è ambientato in una villa sul mare di inizio Novecento, a poca distanza da Barcellona: i ricchi proprietari vi vengono a villeggiare per l’estate; e a prendersi cura del giardino è solo un solitario vecchio, che vede le stagioni alternarsi nei colori degli alberi e il tempo avanzare sul giardino che si rinnova ogni volta.
Nel pomeriggio incomincio l’esplorazione della città.
Nelle viuzze che si attorcigliano intorno alla chiesa gotica intitolata a Santa Maria del Mare, alzo lo sguardo: alle finestre dei palazzi della vecchia Barcellona una serie di cartelli pubblicizzano camere in affitto. Ormai il centro della città vecchia sta cambiando anima rispetto ai tempi in cui visse Mercè: prima era abitato da pescatori, che portavano, di ritorno a casa, l’odore della salsedine, ora da turisti, sempre più giovani, sempre più attratti dagli stereotipi di una città che conserva il proprio passato di città commerciale per guardare con ottimismo al futuro (così recitava uno dei pieghevoli dell’ufficio turistico). Gli strani nomi delle vie riportano ad altri tempi, quando le carrozze portavano i proprietari alle loro ville sul mare, circondate da giardini: e talvolta, nel brusio assordante della calca turistica, pare di sentire il vispo trotto di cavalli sull’acciottolato.
In una piccola e appartata libreria, chiedo una copia del libro di Mercè Rodoreda.
“Non abbiamo traduzioni in castigliano, solo catalano” mi risponde laconico il libraio, un uomo paffuto. Non ha neanche un computer, perché dal suo seggiolone riesce a dominare tutti gli scaffali che si innalzano fino al soffitto, altissimo. Mi chiedo come faccia a salire a quelle vette con il suo carico di adipe. Mercè aveva trascorso la sua infanzia solitaria con il nonno che le parlava solo in catalano. Sfoglio il Jardì vora el mar recante sul frontespizio una citazione che l’edizione italiana non ha conservato: Dieu est au fond du jardin di Robert Kanters.
Le parole si perdono, come i ricordi delle azioni degli uomini; i libri hanno anche il compito di conservare e tramandare. Kanters, un autore francese, e la Francia, appena oltre il confine, è il luogo dove Mercè aveva trascorso parte dell’esilio.
Sono gli anni della Spagna repubblicana e del Fronte popolare che precedono lo scoppio della guerra civile (1936-1939), anni in cui la Catalogna vive un’intensa stagione di recupero delle proprie radici culturali e della propria lingua, al tempo stesso aprendosi alle influenze letterarie del resto di Europa. Mercè a ventotto anni (quanti ne ho io mentre scrivo il mio taccuino) fu insignita nel 1937 del prestigioso premio Crexells con il suo primo romanzo, Aloma, riscritto poi nel 1969.
Ma un evento sopraggiunge nella storia della Spagna: scoppia la sanguinosa guerra civile, nel 1939 sale al potere Franco e la Rodoreda, come decine di altri intellettuali catalani, capeggiati dallo scrittore Armand Obiols, sceglie la via dell’esilio verso la Francia. Infine lo scoppio della seconda guerra mondiale la sorprende a Bordeaux.
Ma nemmeno l’eco lontana delle cannonate dell’ultimo conflitto mi distoglie dalla ricerca del silenzio: quel silenzio nascosto tra gli alberi, conservato sospeso nei profumi dei fiori, mimetizzato nei colori della menta e del rosmarino di un giardino librario, fatto di parole, e solo di silenziose parole. Il libraio mi guarda, mentre indugio a leggere l’introduzione del libro in catalano. Gli mostro l’edizione italiana. E il suo sguardo sospettoso si apre in un sorriso amichevole. Mi chiede se capisco il catalano. Gli rispondo un pochino. Quello che non capisco, lo leggo con la fantasia, come è diritto di ogni lettore.
Ma dove potrei trovare questo giardino sul mare? La Rodoreda nel 1971 torna a stabilirsi a Barcellona, città che trova ben diversa dalla città che ha amato in gioventù e che ha fatto rivivere nei suoi romanzi, sulla scia dei ricordi e e della nostalgia.
Barcellona è cambiata moltissimo dopo la morte di Franco, grazie a un efficace rilancio economico e turistico: il colpo fatale è stato inferto dalle Olimpiadi del 1992 che hanno cambiato il volto della città. Durante gli anni della seconda guerra mondiale, in una lettera indirizzata ad Anna Murià, Mercé Rodoreda scrive che avrebbe voluto riprendere a scrivere, dopo un periodo di silenzio. Ma per farlo doveva rubare qualche ora all’attività di sarta con cui si guadagnava da vivere per sé e per il suo compagno; e così scriveva: “Quando avrò tempo di leggere, scrivere? Voglio scrivere, ho bisogno di scrivere; niente mi ha fatto più piacere, da quando sono al mondo, di un libro appena stampato con l’odore d’inchiostro fresco”.
Seduto su una delle tante sedie a sdraio che sono a disposizione gratuitamente nella spiaggia di Barcellona, e stordito dal vociferare confuso e anonimo di chi si abbronza, ho davanti agli occhi il Mediterraneo: l’unico movimento è costituito dal rumore; l’unica immobilità è il silenzio della scrittura; l’unico ritmo di bassocontinuo è la risacca del mare.
Nel 1979 Mercè lasciò Barcellona, perché non era più sua, per trasferirsi in campagna, in un paesino quasi introvabile sulle carte geografiche, Romanya de la Selva. Qui poté dedicarsi, fino alla morte, avvenuta il 12 aprile nel 1983, alle sue più grandi passioni: il giardino e la scrittura.
Ma dove può fiorire questo giardino sul mare?
Il giardino, raffigurato in una foto in bianco e nero sulla copertina dell’edizione catalana, doveva pur esistere al di là dei confini dell’amorosa scrittura di Mercè.
Mi giungono voci di ragazzi italiani che raccontano di essere appena tornati da un giardino progettato da Antoni Gaudí, ovvero Parco Güell. Ci vado subito.
Nel giardino vedo la fantasia del grande architetto catalano furoreggiare in grandi opere di creatività per soddisfare la committenza dell’imprenditore Eusebi Güell, che volle una città-giardino sul contrafforte della montagna del Carmel.
Abbandono le torme dei turisti sparpagliati. Mi inerpico per un sentiero che, alla fine, si biforca davanti a una parete rocciosa. Sopra viene indicata la direzione con una scritta di vernice rossa: para el mirador. È il segno che sono sulla strada giusta che mi condurrà nel silenzio del giardino sul mare, perché anche nel romanzo si parla di un mirador, di un belvedere, sopra il mare!
Salgo ancora e, stremato per la calura, arrivo sulla spianata della sommità della collinetta.
Sotto un albero frondosissimo sono seduti tre anziani signori che mi guardano un po’ stupiti, perché pochi si avventurano fino a quassù.
Mi avvicino alla balaustra del mirador e rileggo le parole che l’anziano custode del giardino di Mercè pronunciò nell’accompagnare uno dei due visitatori appena giunti alla villa, poco distante da Barcellona, in una calda giornata estiva: “Li feci entrare nel giardino e li portai verso il belvedere… e dissi ‘Guarda, lo vedi? Il Mediterraneo…’“.
(5 – continua)