“Mediterraneo, mare di cristallo” è il taccuino di un viaggio marittimo-letterario realmente compiuto dall’autore grazie a una borsa di studio della fondazione Marc de Montalembert di Parigi (ndr).

Genova, visione crepuscolare

Genova è una città che si stende lungo la costa ligure e alle spalle ha colline su cui si slanciano, inerpicandosi, alti condomini, mentre si apre al suo territorio naturale e storico, il Mediterraneo, qui geograficamente definito Mar Ligure. Genova è la prima tappa del mio viaggio.



Già in treno, ho attraversato la Pianura padana e il suo interminabile susseguirsi di campi, di capannoni e di paesi immersi nella nebbia scialba del prossimo inverno, fino a che, oltrepassate le prime colline della Liguria, ho intravisto dal finestrino i primi sprazzi azzurri del Mediterraneo.

Se il Mediterraneo è per me rêverie (e non uso preziosismi lessicali, ma ogni lingua contiene perle che, in sosta nei fondali lessicali, sprigionano preziosi concetti per i palombari), il mio viaggio deve essere anche serendipity, che è, come scrive il Morin, “l’arte di trasformare dettagli apparentemente insignificanti in indizi che consentono di ricostruire tutta una storia”. 



La storia mediterranea che voglio raccontare, nel mio taccuino, è fatta di indizi raccolti lungo le coste del Mediterraneo, nel profumo del rosmarino e del mirto, nel colore immacolato di una tenda agitata dalla brezza, nello sguardo ammaliante di una ragazza e nel sorriso di un bambino che tira un calcio al pallone… 

Questi pensieri si mescolano nello sferragliare cadenzato del treno che procede lentamente verso Genova. Apro il finestrino per inspirare aria fresca, e libera, perché proviene da rotte lontane per raccontare storie vicine. Tra i tesori sepolti nei fondali del Mediterraneo, mi sono imbattuto in una parola straordinariamente affascinante e significativa per il mio viaggio: talassopoetica. Mi sono interrogato sul suo significato. Lo spiega Matvajevic, autore del Breviario mediterraneo cui questo taccuino di viaggio si ispira.  



“Nel Breviario Mediterraneo si intravede in filigrana quella che ha definito ‘geopoetica’. Ce ne può parlare? Per quanto riguarda il Breviario mediterraneo ci sono alcune visioni che si intrecciano al suo interno. C’è un mare che l’autore aveva dinanzi a sé e poi c’è un mare narrato, visto, vissuto, immaginario, quello che viene da mio padre e dal suo modo di raccontare il Mar Nero su cui nacque a Odessa nei primi anni del secolo: allo stesso tempo un elemento visto e vissuto, immaginato e immaginario. Attraverso le parole paterne mi giungeva il messaggio di un mare che potevo solo rappresentarmi. D’altra parte sono nato a Mostar, una quarantina di chilometri dalle sue coste […]. Da studente feci dei viaggi come mozzo, su un veliero greco che mi permise di vedere tante isole, esplorare le grotte, dormire in una stiva strettissima e scomodissima, mangiare pane di dieci giorni, le famose gallette […] Scrivevo su un calepino impressioni, che sono rimaste a lungo accantonate per essere riprese poi. Il Breviario non è un libro scritto nelle biblioteche, ma solo completato. Gran parte è stato fatto nelle piccole osterie in giro per il Mediterraneo sentendo parlare la gente dei venti, della schiuma, delle onde, del mare cattivo, o buono, del mare calmo o agitato. Queste chiacchiere assomigliano allo sciacquio e allo sciabordio delle onde; cercavo di percepire le parole mediterranee e di metterle in relazione all’onda. Da una parte il mare vissuto e mare narrato, dall’altra chiacchiera e onda: forse queste sono le basi della geopoetica del Breviario. Geopoetica è un termine che ha inventato il mio amico Kenneth White. Forse mi andrebbe meglio il termine ‘talassopoetica’, perché in geo c’è la terra, anche se si intende il globo terracqueo”.

Appena sceso alla stazione di Genova, la prima cosa che colpisce chi arriva da Milano è l’odore del mare che si aggira tra i vicoli stretti della città con i suoi palazzi fatiscenti e i nomi delle vie che ricordano gloriose gesta di un passato di repubblica marinara, quando le navi di Genova solcavano, dominatrici, il Mediterraneo orientale, mare dei commerci e dell’esercizio del potere, dopo la battaglia di Curzola del 1298 in cui la città ligure sconfisse l’avversaria Venezia.

Ora Genova è una città contradditoria: il suo centro storico, labirinto di vicoli, nasconde umanità oriunda di tutto il mondo, che lì esercita commerci più o meno legali, protetti dall’indiscrezione di sguardi curiosi e vigilanti.

Nelle vie principali si passeggia rimirando le vetrine dei negozi alla moda, o si sorseggia un caffè ai numerosi tavolini delle piazzette, che compaiono di tanto in tanto dopo metri di vicoli ciechi.

Mi sono perso in questo mare di stradine, che portano da Stazione Principe al centro storico, assorto a intravedere, con gli occhi alzati, le facciate dei bei palazzi quattro-cinquecenteschi che la nobiltà mercantile di Genova si era fatta costruire in città come sede di rappresentanza della propria posizione sociale.

Voltando in un crocicchio, intravedo una figura che ha appena girato l’angolo, a destra. Lo conoscevo sicuramente, non so come. Mi metto a correre, prima che l’individuo si perda (o meglio che io perda lui) nelle miriadi di possibilità del coacervo di stradine.

Corro, riesco a stento a stargli dietro, non cammina, pare avere le ali ai piedi. Il sole sta tramontando. Intravedendo il suo viso, noto un paio di baffi e un’espressione austera e malinconica. I suo capelli sono impomatati e con cura pettinati di lato.

C’è, tra le vie di Genova, ancora l’eco lontana della passeggiata che un giorno Dino Campana si concesse, scrivendo con la sua prosa onirica: “Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltano, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più vasta più ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove erano ancora in alto battaglia glorioso il giorno in fantasmi d’oro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici? E le tue vie tortuose di palazzi e palazzi marini e dove il mito si cova?“.

Mentre cammino, la luce crepuscolare si adagia dolcemente sulle facciate dei palazzi che stanno immobili a ricordare quando i Genovesi, solcando le acque millenarie per commerciare le mercanzie orientali, scambiavano notizie in tutti porti del Mediterraneo. “Mentre dalle volte un altro mito si cova che illumina solitaria limpida cubica la lampada colossale a spigoli verdi? Ed ecco che sul tuo porto fumoso di antenne, ecco che sul porto fumoso di molli cordami dorati, per le tue vie mi appaiono in grande incesso giovani forme, di già presaghe al cuore di una bellezza immortale appaiono rilevando al passo un lato della persona gloriosa, del puro viso ove l’orecchio rideva nel tenero agile ovale. Suonavano le chitarre all’incesso della dea. Profumi varii granavano l’aria, l’accordo delle chitarre si addolciva da un vico ambiguo nell’armonioso clamore della via che calava al mare. Le insegne rosse delle botteghe promettevano vini d’oriente dal profondo splendore opalino mentre a me trepidante la vita passava avanti belle immortali forme serene. E l’amaro, l’acuto balbettio del mare subito spento all’angolo di una via: spento, apparso e subito spento!

Dino Campana nacque a Marradi (Faenza) nel 1885, ma già all’età di 25 anni, a seguito di segni di squilibrio mentale, venne fatto internare dal padre in ospedale. Forse per gli anni di una clausura forzata, una volta ristabilitosi, viaggiò in Argentina e Uruguay, ma di ritorno in patria, non avendo ancora saziato il proprio nomadismo, iniziò a vagabondare per l’Italia.

Queste note di una vita vissuta più nella psiche che nei fatti sono ciò che leggo, dopo essermi seduto nelle vicinanze del porto. Di fronte a me si anima la Genova dei silenzi, ancor più fiochi della languida delicatezza della luce crepuscolare, che assume tonalità ancora più morenti sulle facciate dei palazzi genovesi; e qui è il sentimento della vicenda esistenziale del poeta maledetto a prevalere fino a saziarsi di malinconia. “Il Dio d’oro del crepuscolo bacia le grandi figure sbiadite sui muri degli alti palazzi, le grandi figure che anelano a lui come a un più antico ricordo di gloria e gioia. Un bizzarro palazzo settecentesco sporge all’angolo di una via, signorile e fatuo, fatuo della sua antica nobiltà mediterranea. Ai piccoli balconi i sostegni di marmo si attorcono in se stessi con bizzarria. La grande finestra verde si chiude nel segreto delle imposte la capricciosa speculatrice, la tiranna agile bruno rosata, e la via barocca vive di una duplice vita: in alto nei trofei di gesso di una chiesa gli angioli paffuti e bianchi sciolgono la loro pompa convenzionale mentre che sulla via le perfide fanciulle brune mediterranee, brunite d’ombra e di luce, si bisbigliano all’orecchio al riparo delle ali tetrali e pare fuggano cacciate verso qualche inferno in quell’esplosione di gioia barocca: mentre tutto tutto si annega nel dolce rumore dell’ali sbattute degli angioli che riempie la via.

Ma cosa è questo Crepuscolo mediterraneo, testo di finestre da cui si affacciano, angelicamente, preziosità concettose? “Crepuscoloincomincio a leggere — “si configura come una scenografia barocca, con la duplice visione e di quanto avviene in terra e di quanto avviene contemporaneamente in cielo, così frequente nella pittura di quell’epoca e che la magnificenza stessa del crepuscolo mediterraneo nella sera estiva può suggerire: fuggono verso un loro inferno le brune fanciulle mediterranee, mentre dal frontone della chiesa volano gli angeli di gesso”. Dino Campana aveva conosciuto l’amore folle di Sibilla Aleramo, la scrittrice di Una donna. L’aveva incontrata nell’estate del 1916.

L’anno seguente fu arrestato a Novara e scarcerato per intervento di Sibilla. Un viaggio chiamato amore il loro, per usare il titolo di un film che racconta la loro storia di passione.

Nel 1919 il poeta venne, però, internato definitivamente in manicomio a Firenze e qui rimarrà fino alla morte nel 1932. 

Il poeta visivo e veggente trascorre, quindi, buona parte della sua vita rinchiuso in manicomio componendo le poesie e le prose liriche che costituiscono i Canti orfici, sempre in cerca di un barlume di lucida felicità. E scrisse in una lettera a Cecchi datata 2 maggio 1916: “Confido che lui ed altri ancora più di me sappiano amare quel fantasma soleggiato di felicità che credetti intravvedere molto tempo fa laggiù sul Mediterraneo”. E il treno riparte da Genova, dopo questa breve sosta: riprendo il mio viaggio.

Il sole, color rubino, sta per calare dietro la linea dell’orizzonte marino, ma c’è luce sufficiente per intravvedere, per qualche istante, riflesso sul finestrino del treno, il volto felice di Dino Campana.

(2 – continua)

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