La visione dell’auto guidata da un razzista di 20 anni che falcia una folla di manifestanti a Charlottesville è di un tale orrore da restare nella memoria per anni. Perché l’orrore più grande non sta nemmeno nei corpi disarticolati delle vittime ma nell’odio invisibile e devastante che ha colmato la testa del “suprematista”, nuovo termine che sta ad indicare il razzista d’antan. Il punto è questo: come ha fatto a maturare e crescere un simile disprezzo per la vita di chi ha un’opinione diversa dalla propria. E il punto è di importanza vitale per capire se il contagio di questo odio sia così diffuso negli States da poter minacciare una nuova guerra civile americana.
Il corteo antirazzista era indirizzato contro i suprematisti che protestavano per la rimozione della statua del generale Lee a Charlottesville in Virginia. La rimozione delle statue e dei nomi dei leader confederati è in atto già da diversi mesi, in reazione alla strage commessa da un razzista nel 2015. Da allora a New Orleans hanno rimosso statue e targhe. Il sindaco di New Orleans Mitch Landrieu era stato molto netto in proposito. Questi simboli “celebrano una confederazione fasulla che ignorava la morte e la schiavitù … E dopo la Guerra Civile questi monumenti sono parte del terrorismo tanto quanto le croci fiammeggianti”. Ma la ragione vera è data dal fatto che Landrieu va verso le elezioni in una città che per il 60 per cento è afroamericana.
Chi scrive ha studiato e ancora continua a studiare l’epopea della guerra civile americana basandosi principalmente su quello che, forse, è il libro di storia più bello e grandioso che sia mai stato scritto. Per certi versi lo si potrebbe paragonare al Signore degli anelli in forma di saggio storico. Si tratta de La storia della guerra civile americana di Raimondo Luraghi, medaglia d’argento della Resistenza combattente nelle brigate Garibaldi agli ordini di Pompeo Colajanni, il leggendario “comandante Barbato”. L’opera fu pubblicata nel 1965 ed è stata ritenuta, fino a pochi anni fa, una pietra miliare della storiografia americana. Scritta con uno stile epico e con una profondità di analisi documentale insuperabile, l’opera di Luraghi è un saggio storico quasi in forma di poema epico. E ciò ha un senso profondo: Luraghi ama i propri personaggi, raramente ne critica alcuni. Fa emergere la grandezza soprattutto di Lincoln e Lee, di Grant e di Johnston, la spietatezza di uno Sherman, l’eroismo di un Jeb Stuart. Nomi che al pubblico italiano non dicono nulla e che ormai anche gli americani ignorano ma che sono, per chi li conosce, “cari come parole domestiche”.
Finito il libro, fatta la somma algebrica di eroismi e delitti il lettore si troverà ad amare gli Stati Uniti d’America nel suo complesso. Un’opera patriottica quindi e della quale sarebbe opportuno scrivere. Ma l’opera di Luraghi da diversi anni è ormai disprezzata perché essa, pur riconoscendo il grande valore della vittoria nordista, senza la quale avremmo avuto due dittature militari anziché una democrazia, non nega le ragioni del vinto. E precisa che il mantenimento della schiavitù non fu mai la ragione della guerra. Le ragioni furono politiche ed economiche: due paesi separati dalla linea Mason-Dixon dove il Sud finiva per essere assoggettato al Nord. La schiavitù era il retaggio che i Southerners avevano dovuto accollarsi in quanto il commercio degli schiavi aveva fatto ricchi gli armatori navali del nord. La “peculiare istituzione” così come veniva chiamata la schiavitù dei “negri d’America” (Luraghi scriveva un saggio antirazzista in un linguaggio degli anni Sessanta dove il termine “negro” non aveva alcun contenuto offensivo) era un fardello di cui bisognava liberarsi ma progressivamente.
“La schiavitù è un male sia morale che politico in ogni paese. Penso che essa sia una peggior calamità per la razza bianca che non per quella nera e mentre i miei sentimenti sono fortemente a favore di quest’ultima, le mie simpatie sono più vive per la prima. L’emancipazione sarà più rapida grazie alla mite e progressiva azione del cristianesimo che non attraverso le bufere della feroce Discordia. Mentre vediamo dinanzi a noi avvicinarsi l’abolizione finale della schiavitù umana e la aiutiamo con le nostre preghiere e tutti i mezzi leciti in nostro potere, dobbiamo lasciare il progredire e l’esito nella mani di Colui che vede i risultati”. L’autore di questa lettera, scritta alla moglie nel 1856, liberò i suoi schiavi (mezza dozzina in tutto) durante la guerra. Era il generale Robert E. Lee. Oggi, secondo nuovi documenti, il generale Lee sarebbe stato uno schiavista brutale e sadico: ma ci si permetta di dubitare di un’operazione “storiografica” come questa.
La cancellazione dei simboli dell’epopea confederata va contro quello che era il progetto di Lincoln stesso, teso a una pacificazione del paese e che un attentato, su cui restano parecchie ombre, impedì, favorendo un’occupazione militare del Sud per almeno dieci anni. Ma gli Stati Uniti riuscirono comunque a recuperare un’unità nazionale esaltando Nord e Sud in un processo unico che oggi, dopo la presidenza Obama e la follia ideologica che sta pervadendo il paese, è stato quasi del tutto eroso. E che i sostenitori di Lee, che non volle iniziare la guerriglia dopo la resa di Appomatox nel 1865 e favorì una pacificazione del paese, debbano essere “i nazisti dell’Illinois”, come li chiamavano Jake ed Ellwood Blues, suona davvero tragicamente ironico. Ciò che viene cancellato nella statua di Robert Lee è il simbolo di un’identità nazionale, non la glorificazione del razzismo. E questo dovrebbe essere chiaro a tutti.
Così come in Italia, negli States la storia viene costantemente strumentalizzata senza alcun rispetto per le ragioni dei vinti, favorendo la crescita dell’ignoranza più becera che, a propria volta genera, intolleranza e odio. Continuiamo a ritenere che le ideologie siano quelle del XX secolo e che siano ormai morte mentre l’ideologia è il peccato originale dell’uomo che prende una parte di realtà e la fa diventare tutto: un uomo semi-colto che “non sa di non sapere” e, da vero eterodiretto, parla con langue de bois. Come diceva Augusto Del Noce ,essere equidistanti da due errori è un errore in sé: è necessario essere al di sopra degli errori per cercare, faticosamente, una verità. Ai “pochi, felici pochi” che ancora cercano questa strada la vocazione di non arrendersi.