Mediterraneo, mare di cristallo” è il taccuino di un viaggio marittimo-letterario realmente compiuto dall’autore grazie a una borsa di studio della fondazione Marc de Montalembert di Parigi (ndr).

Napoli: da un’altra visuale

Napoli si stende tra fuoco e acqua, tra la forza del Vesuvio e la rilassatezza del Mediterraneo, che qui ha il nome di Tirreno. 



Fuori dalla stazione ferroviaria, pulsa già l’operosa vitalità dei napoletani la cui qualità riconosciuta è l’arte di sapersi arrangiare.

Dopo aver superato un mercatino antistante la stazione, mi dirigo a Spaccanapoli, una via che “spacca”, cioè attraversa la città. Girando per i vicoli di Napoli, ci si accorge che qui il teatro si è travestito con le sembianze della vita, e che la vita stessa scorre con la lentezza di una tazzulella de cafè sorseggiata al bar, con la velocità di uno scippo col motorino, con la pacatezza di chi osserva i passanti.



I vicoli, stretti fin quasi a sfiorarsi, sono collegati da corde dove si stendono i panni, per far sì che le calde brezze del mare possano asciugarli lasciandovi la loro fragranza marina.

Le corde che uniscono una finestra all’altra, un balcone all’altro, sembrano tenere in piedi vecchi palazzi in un miracoloso e inspiegabile equilibrio di forze. E se solo una di queste domestiche corde venisse tagliata, la Napoli della decadenza, simbolicamente, crollerebbe con effetto domino, e la fragilità della sua umanità verrebbe fuori alla luce del sole dal ventre di Napoli, per usare il titolo di un romanzo di Matilde Serao, la quale, nata a Patrasso nel 1856 e morta a Napoli nel 1927, era di madre greca e padre italiano: e da Napoli prenderò tra qualche ora preso un treno notturno diretto a Brindisi dove mi imbarcherò per Patrasso. 



A piazza Plebiscito c’è il celeberrimo bar Gambrinus, dove tutta Napoli prima o poi passa per gustarsi il caffè e un delizioso babà… Napoli è dolce, dolcissima, e odorosa del suo caffè schietto e nero, come il nero magma del Vesuvio. Sorseggio il caffè al bancone, ho ancora tre ore prima che parta il treno per Brindisi. Mentre il miele e il rum di babà si spandono nell’aria, fuori dalla vetrina compare la Napoli benestante, un’altra Napoli: Miseria e nobiltà sono i due volti di Napoli, che si riflettono nel quartiere Scampia e Corso Toledo, in una passeggiata decantata da Carosone, in Io mamméte e tu. A Piazza Plebiscito inizio a leggere Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese.

L’autrice, nata il 13 giugno 1914 a Roma e scomparsa nel 1998, pubblicò nel 1953 con Einaudi questa raccolta, e fu insignita l’anno successivo dal premio Viareggio. Essa venne accolta dal plauso della critica, ma dovette scontare pesanti accuse da parte di molti intellettuali, secondo i quali, a fondamento dell’opera, vi era un disegno atto a denigrare la città di Napoli: dall’istituzione familiare alle tradizioni, persino ai suoi intellettuali. In realtà le intenzioni della Ortese erano diverse: l’opposizione al senso di un quietismo della “napoletanità” in nome di un attivismo della ragione contro le brutture della realtà fatta di miseria in cui la “napoletanità” stessa era soffocata.

Le voci giungono da lontano, Piazza Plebiscito è stranamente deserta.

Non importa. Leggo le ultime righe del racconto. “Un paio di occhiali: Eugenia, sempre tenendosi gli occhiali con le mani, andò al portone, per guardare fuori, nel vicolo della Cupa. Le gambe le tremavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia. Con le labbra bianche voleva sorridere, ma quel sorriso si mutava in una smorfia ebete. Improvvisamente i balconi cominciarono a diventare tanti, duemila, centomila; i carretti con la verdura le precipitavano addosso; le voci che riempivano l’aria, i richiami, le frustrate, le colpivano la testa come se fosse malata; si volse barcollando verso il cortile, e quella terribile impressione aumentò. Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua saponara, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti degli occhiali“.

Il racconto finisce, dunque, con la bambina mezzo cieca (per la quale gli occhiali rappresentavano l’attesa rivelazione del mondo e, forse, la speranza di un mutamento) colta da un inquietante smarrimento di fronte allo spettacolo miserabile offerto dalla vita dei vicoli di Napoli.

Un paio di occhiali è un racconto commovente ed emblematico della raccolta de Il mare non bagna Napoli in cui emergono la difficoltà e il dolore della scrittrice nel dover fare i conti con la realtà: mettersi gli occhiali significa conoscere il volto vero, anche nel suo aspetto più miserevole, di Napoli, e abbandonare il velo che una miopia onirica avvolge. Di fronte alla realtà può capitare di sentirsi estranei a quell’orrore, o di non volere confondersi con esso, e avvertire forte il desiderio di fuggirlo, di abbandonare per sempre “gli occhiali rivelatori” e rifugiarsi in un altrove favoloso.

All’intollerabilità del reale, la Ortese risponde con il simbolo e la menzogna (sarà il sortilegio dell’arte della scrittura?), ma in un rapporto dialettico con la realtà: dietro a questa presa di posizione c’è un profondo dolore, la percezione del male che si insinua sulle creature, sullo spazio, sul tempo, e insieme il desiderio, tutto adolescenziale, di voler assaporare una felicità certa e una definitiva conciliazione con il mondo esteriore della realtà.

Il racconto si chiude con una malinconica rassegnazione, e di qui il libro procede muovendosi nella linea del reportage. La Ortese scruta e testimonia minuziosamente le condizioni disumane in cui è costretta a vivere la plebe di Napoli nei primi anni del secondo dopoguerra; descrive i volti, il rumore, il dolore, di una città che non sembra neppure bagnata dal benefico Mediterraneo. 

Il mare non bagna Napoli è un libro affascinante e doloroso in cui si sente palpitare, in ogni pagina, la sofferenza e l’indignazione della scrittrice e il suo amore per Napoli, città miserabile e nobile al tempo stesso. Voglio vedere quel mare che “non bagna Napoli” e mi reco in Via Nazario Sauro, che è il primo tratto della splendida passeggiata del lungomare; questo si snoda in un paesaggio di suggestiva bellezza, fino a giungere al Porto di S. Lucia, uno dei punti più famosi della città, dove un molo unisce alla terraferma la piccola isola sulla quale si trovano il borgo marinaro, animato da numerose trattorie, e la massiccia mole di Castel dell’Ovo, eretto nel XII sec sui resti di un’antica villa romana appartenuta a Lucullo.

E qui, nominando Lucullo e i suoi banchetti divenuti proverbiali, mi viene in mente una pagina curiosa del libretto del tunisino Al-Duagi Ali (1909-1940), In giro per i caffè del Mediterraneo: questa deliziosa opera è il resoconto di un viaggio in crociera intrapreso dallo scrittore nell’estate del 1933 nelle varie città del Mediterraneo. 

A mezzogiorno spaccato tornammo a Napoli dove andammo a pranzare al ristorante ‘Santa Lucia’. Di questa santa non sapevamo niente né io, né la guida e neanche l’insegnante con quel suo ‘Vangelo blu’. Perfino la moglie del dottore trascurò di porre domande a questo proposito. Il ristorante — che prende il nome da questa santa — era molto elegante. Lì si mangiava gli spaghetti cucinati dal cuoco più esperto del mondo. Certo gli spaghetti italiani sono veramente squisiti — stando a quanto si dice — e sono la miglior pubblicità per la famosa arte italiana, anche se mangiarli crea non poche difficoltà a un africano come me, abituato al cuscus. Mi misero davanti a piatto di questi tubicini deliziosi e, disorientato, cercai la maniera di avvolgerli intorno a una forchetta al cui uso non ero abituato. Dopo aver studiato ed esaminato la situazione, mi rivolsi all’insegnante seduto al mio fianco, e scoprii che anche lui, come me, era piuttosto imbarazzato; allora li lasciai al tavolo vicino, e — colmo della sfortuna — li trovai che stavano mangiando legumi e carne. La salvezza venne da un italiano ‘consumatore’ che avevo sentito ordinare gli spaghetti. Quando lui ebbe il piatto davanti, afferrò una forchetta con la mano destra, un cucchiaio con la sinistra e con la forchetta si mise ad avvolgere con un movimento aggraziato quei tubicini dentro al cucchiaio, fino a farne un boccone che si portava rapidamente alla bocca. Cominciai a imitarlo, ma più giravo la forchetta nel cucchiaio e vieppiù quei sacrosanti tubicini mi scivolavano via. Alla fine lasciai perdere quei benedetti maccheroni per un piatto di fagioli, e grazie a Dio mangiai. Quanto all’insegnante, aveva inutilmente cercato nel suo Guide bleu una spiegazione su come si dovessero mangiare gli spaghetti, poi li aveva lasciati perdere anche lui, maledicendo l’inventore di quei tubicini che non entravano in bocca. Dopo pranzo facemmo un giro in città tra poliziotti e guardie, che a quell’epoca costituivano la schiacciante maggioranza degli abitanti delle città italiane. E tra statue e bronzi — di poco inferiore ai poliziotti – tenevo d’occhio quel vulcano irascibile, poiché temevo da un momento all’altro l’esplosione della sua collera. Ritrovai la mia tranquillità solo quando rimisi piede sul ponte della nave, e interposi il golfo di Napoli tra me e quel vulcano. Grazie a Dio, l’avevo scampata. Ritornammo alla nave con la moglie del dottore che ricominciava a fare domande ai marinai sulla partenza della nave, e con l’insegnante che impartiva lezioni e ordini lapalissiani. Lasciammo Napoli tra il fumo della nave e quello del Vesuvio“. 

È arrivata anche per me l’ora di lasciare Napoli e il Vesuvio: mi attende il treno notturno per Brindisi, dove anch’io metterò piede sulla nave che, dopo aver solcato in una notte stellata il Mediterraneo, mi condurrà a Patrasso.

(7 – continua)

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