Intorno alla metà del secolo scorso alcune grandi personalità del pensiero cristiano avevano già avvertito, con un’acutezza impressionante, la crisi della tradizione. Parliamo di autori del calibro di Henri de Lubac, di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar, di Joseph Ratzinger e di Luigi Giussani. Si trattava di riflessioni che cercavano di intercettare e comprendere la vera posta in gioco della svolta epocale che si era consumata, in Europa e nel mondo intero, a partire dagli anni drammatici tra le due guerre, attraverso l’esperienza bruciante dei totalitarismi, per giungere al periodo postbellico in cui si delineavano, nella morsa delle contrapposte ideologie, i diversi tentativi di una ricostruzione della società e più ancora della “condizione umana” del nuovo tempo. 



Pur partendo da angolazioni diverse, questi pensatori puntano lo sguardo su qualcosa di essenziale, cercando la chiave segreta per comprendere il perché del crollo degli antichi valori cristiani (ripetuti formalmente, ma non più realmente percepiti), e insieme le ragioni della sfida a cui il cambiamento dell’epoca li urgeva. Uso il termine di “pensatori” in maniera del tutto diversa, però, da come userei i termini di “intellettuali” o “analisti”, perché in questi personaggi il pensiero si rivela un’esperienza di giudizio sul proprio tempo, e insieme di affezione profonda ad esso. 



E infatti la prima cosa che salta agli occhi è che questi autori non collocano il cristianesimo, come ci si aspetterebbe, solo dalla parte della tradizione che è andata in crisi e non risulta più attraente per i giovani del tempo, ma, con una mossa ardita che permette di capire il gioco drammatico in atto, lo ricollocano anche, e direi soprattutto, dalla parte della crisi. Essi sono coloro che accettano la sfida: il cristianesimo va ritrovato proprio lì, alla prova del grido della ragione e del cuore degli esseri umani, che hanno smarrito il senso del vivere e si scoprono feriti nella loro stessa capacità di amare. 



Ma questo vuol dire che la tradizione cristiana ridiventa un incontro nell’adesso del tempo; non si affida più solo a quello che ha compreso e che sa già, a proposito di un Dio che si è rivelato in forma umana, ma inizia ad attendere di nuovo — e sempre di nuovo — di scoprirlo in atto; interessato a vedere come nel presente Dio — se Dio è davvero una “presenza presente” — risponde all’attesa degli uomini. Perché “il messaggio [cristiano] non è un discorso: è una presenza, è una persona. È un modo di presenza di una persona o di persone” (Giussani), che continua a raggiungerci, ci tocca, ci inquieta, ci smuove. Ecco il colpo di scena di questa percezione della crisi (che è anche una nuova percezione dei “valori”) della tradizione cristiana: la scoperta che l’avvenimento cristiano è esso stesso, permanentemente, una crisi: una messa in questione della vita, l’irruzione di una novità che “rompe sempre i gusci” (von Balthasar) di ciò che è stato e ridesta tutta la nostra libertà nel deciderci per essa o contro di essa.

È proprio la parabola della cultura del Novecento che impone dall’interno di capire se e quale possa mai essere una “novità” nella storia. Quella dell’uomo nuovo, a partire dal “superuomo” o “oltreuomo” di Nietzsche, si è ben presto rivelata nel suo dramma di “umanesimo ateo” (de Lubac). All’annuncio che “Dio è morto” non può che seguire l’annuncio che “è morto l’io”. Ma cosa muore? Un’esperienza vivente diventata un sistema di valori astratti; un carne divina ridotta ad uno scheletro di precetti morali. L’epoca moderna peraltro, è segnata da una profonda “slealtà” (Guardini): ciò che essa ha conosciuto dell’essere umano, della sua attesa e del suo desiderio più profondo di essere e di verità, di carne e di infinito, tramite la storia cristiana, è stato essiccato nei concetti della “ragion pura”. 

È come se ciò che una persona, incontrando un’altra persona, impara e sperimenta dell’amore, si riducesse ad una sua capacità di amare in base alle sue sole forze, senza rapporto con l’amato. Come un desiderio che si compia da sé, senza il desiderato: magari in nome di esso, grazie a quello che esso nel passato ci ha detto, ma senza la sua presenza ora. Ma se Cristo appartiene al “passato”, se è solo ciò che è custodito dalla tradizione, avrà ancora a che fare con il futuro? Forse dovremmo chiederci addirittura se non sia meglio per noi “smetterla di sognare per affrontare la realtà” (Ratzinger). 

O la tradizione ridiventa “problema” o essa semplicemente cessa, perché “tutto ciò che è stato realizzato finora non [è] ancora quanto Cristo esige ora, direttamente, da me e da te, dalla nostra generazione” (von Balthasar). Il punto infiammato della grande tradizione cristiana, la sua stessa “essenza”, si gioca dunque nella nostra libertà.