L’ubriacatura di dati e di immagini squadernati dai moderni mezzi di comunicazione porta inevitabilmente a esasperare in senso traumatico contorni quantitativi ed effetti sociali dei movimenti migratori forzati che sono una delle cause principali del meticciato verso il quale sta evolvendo la società “globale”. Rischiamo di dimenticare che gli esiti a cui oggi assistiamo, anche nella nostra martoriata Italia, sono solo il culmine di un fenomeno che ha radici molto più antiche e complesse.
La storia dei popoli è per natura nomade, fin dai suoi più remoti inizi. Esplorando nuovi spazi, trapiantandosi in contesti anche lontani e radicalmente diversi, le comunità umane si sono via via differenziate nel corso dei millenni. Hanno provocato distacchi e aperto strade contrastanti di sviluppo. Ma hanno anche creato incroci, sovrapposizioni, rimescolamenti continui. Le vicende della fertile penisola che si protende, dalla corona delle Alpi in giù, verso il centro del Mediterraneo non fanno certamente eccezione. Le sue stesse condizioni materiali la predestinavano a offrirsi come un ponte privilegiato di collegamento. Divenne, in pratica, una calamita irresistibile di attrazione, crocevia dei rapporti di comunicazione via mare, all’interno della vasta pianura liquida che consentiva gli scambi e faceva incontrare le isole di civiltà fiorite ai margini del cuore pulsante del Vecchio Mondo.
I facili sbocchi sul bacino del grande “mare interno” sono strettamente intrecciati persino alla nascita del nome che designa l’attuale territorio nazionale. Il suo ingresso nel corredo degli strumenti utilizzati per descrivere il mondo conosciuto non è, di per sé, invenzione autoctona, ma un frutto di importazione accolto da presenze straniere venute ad annodarsi, in modo positivamente efficace, con le realtà etniche preesistenti in loco da epoche anteriori. È da uno sguardo “esterno” che è derivata la prima fortuna dell’etichetta che ci identifica nel mosaico dei continenti. Alle origini di questo battesimo di matrice esotica va collocato, infatti, il successo della colonizzazione da parte delle città-stato della Grecia antica, progressivamente infiltratesi e diventate egemoni sulle coste dell’Italia meridionale e nella Sicilia sud-orientale, da Napoli e Taranto fino a Messina, Siracusa e Agrigento, a partire dall’VIII-VI secolo a.C. E vi è da notare che l’inserimento greco sui bordi più mediterranei di ciò che oggi chiamiamo “Italia” è già esempio lampante di una popolazione in espansione capace di alimentare flussi migratori tutt’altro che finalizzati solo alla vampiresca occupazione di suoli nemici da dissanguare. La conquista romana non avrebbe funzionato, in seguito, secondo criteri molto diversi.
Sembra che sia da attribuire ad Antioco da Siracusa (V secolo a.C.) la prima individuazione precisa di un nucleo demografico, da lui situato nella punta estrema della Calabria, a cui è assegnato il nome di Italòi (cioè “itali”). Attraverso i geografi e gli storici dell’età antica, in molti casi di origine greca anche se vissuti sotto il dominio di Roma, come Strabone e Dionisio di Alicarnasso, attivo al tempo di Augusto, l’appellativo di “itali” si stabilizzò in modo definitivo, allargandosi verso nord fino a includere prima di tutto l’interno della Calabria e la piana di Metaponto, e da lì poi tendendo ad abbracciare, sotto un ombrello unitario, l’intera galassia di comunità e popoli distribuiti lungo la dorsale appenninica, alle spalle dell’astro sempre più luminoso e potente della città di Roma. Si cominciò a favoleggiare della discendenza da un mitico re Italo che avrebbe dato il proprio nome al popolo raccolto sotto lo scettro del suo comando. E dall’elemento umano, il nome si proiettò verso il territorio in cui si erano diffuse le cellule eterogenee di una realtà ormai multiforme. Lo spazio abitato dagli itali divenne, in senso generale, l’Italia.
Il fattore decisivo di questa dilatazione di un concetto etnico-geografico di significato in origine molto ristretto è stato proprio l’incontro/scontro con la parallela avanzata della conquista romana: un altro, impressionante teatro di incisiva mobilità che coinvolse ambiti ancora più massicci che nel caso greco, in cui un gran numero di diversità etniche, linguistiche, sociali e culturali vennero in contatto e, contaminandosi a vicenda, generarono il crogiolo di una trasformazione profonda delle entità collettive abbarbicate a luoghi e contrade divisi da un policentrismo esasperato, eppure avviati ad amalgamarsi sotto un unico fulcro superiore di gravitazione. Dal centro di comando, si puntava a inglobare ogni elemento di originalità, a uniformare e a inquadrare in un unico ordine, senza poter estinguere del tutto le differenze che separavano i molteplici soggetti presenti sullo scacchiere di un territorio molto frammentato. Alla base dell’assorbimento sotto il potere di Roma dell’intera area italiana, e insieme degli altri complessi di popoli dell’ecumene greco-mediterranea, non stava il progetto di un titanico imperialismo totalitario, ma la pratica realistica del melting pot: si veniva a creare uno spazio di compenetrazione reciproca, una “fornace” in cui tanti ingredienti separati si sono fusi in una nuova realtà ibrida. Il modello vincente è stato quello dell’inclusione, non del soggiogamento soffocante e distruttivo.
Se questi caratteri di fondo si rintracciano, a grandissime linee, nelle premesse più remote della vicenda storica della realtà che, linguisticamente e culturalmente, oggi definiamo “italiana” – sintesi di soggetti diversi che si sono incastrati tra loro senza mai costituire, fino alla seconda metà dell’Ottocento, una unità politica e tantomeno un blocco etnico omogeneo -, li possiamo veder riemergere, caricati di aspetti nuovi, lungo tutta l’età successiva al crollo del dominio romano, nel cuore dello sviluppo medievale e fino alle fasi più avanzate del periodo moderno. La chiave di volta rimase sempre l’assemblaggio del molteplice aperto all’innesto di apporti inediti, accolti dall’esterno, sul tronco di piattaforme preesistenti. Goti, bizantini, longobardi, franchi, arabi, normanni, francesi, aragonesi, spagnoli, austriaci, insieme a sparute minoranze ebraiche, albanesi, franco-provenzali, germaniche, slave, incorporate sul filo del tempo nel tessuto delle varie identità italofone: la storia italiana si rivela come un mosaico multicolore, in cui il meticciato sociale, a volte anche spigoloso e conflittuale, si è fuso con le spinte alla convergenza trascinate dagli interessi economici e dalla logica delle convenienze reciproche, certamente, ma anche dalla forza coesiva di un ethos a tanti livelli diversi condiviso, che sulle ceneri della fragile pax dell’Impero celebrato da Virgilio ha conosciuto nella novità della fede cristiana il suo cemento connettivo più stabile e fecondo.
Si anticipano alcuni dei temi svolti nel saggio Diversi, in una storia comune: alle radici del “meticciato” italiano, che compare all’interno del volume-catalogo della mostra “Nuove generazioni. I volti giovani dell’Italia multietnica”, a cura di Giorgio Paolucci, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2017 (in allegato, dvd a cura di Andrea Avveduto).