Caro direttore,
ci sono anniversari della nascita in terra o al cielo di un padre, di una madre, di un figlio o di un amico che sono fontane di memoria più profonde e vivaci degli anniversari della nostra vita, resi oggi quasi scontati, rituali, come la pioggia di auguri formali e tutti uguali (con tanto di faccine di WhatsApp) generati elettronicamente il giorno del nostro compleanno.



Son trascorsi dieci anni da quella domenica del 19 agosto 2007, giorno di apertura del Meeting per l’amicizia fra i popoli, quando ci raggiunse nell’auditorium della fiera — lasciandoci tutti in un silenzio commosso di dolore, ma lietamente traboccante di ricordi — il comunicato che per Claudio Chieffo, nella notte, si era realizzato il desiderio che aveva cantato per una vita: “E quando un dì con Lui sarò, nella sua casa abiterò, nella sua casa tutta d’or, con tanta gioia dentro al cuor”. E fu davvero, per lui e per noi, il suo dies natalis, come la Chiesa chiama il giorno della morte dei testimoni di Cristo, il “compleanno nei cieli”, quei cieli che Claudio ci faceva vedere e toccare, chiedendo l’eternità, ogni volta che usavamo la bocca che Lui ci ha dato per cantare. Anche nel chiuso di un salone o in montagna, quando al punto d’arrivo di una gita erano coperte di nuvole. 



Chieffo è stato un autentico testimone, affascinante e avvincente — secondo l’etimo, capace di vincere ogni nostra resistenza “legandoci” a Uno — della bellezza, della verità, del bene, della pace e della gioia che solo Cristo può donare all’uomo che cerca ogni giorno il suo volto, come grida il nostro cuore (cf. Sal 26,8). Quest’anno, lui è stato presente a Rimini come lo era — visibile con gli occhi del nostro cuore, che “non potranno mai dimenticare cosa dicevano i tuoi occhi”, Claudio — quella domenica mattina del 2007 e tutta la settimana del Meeting che ne seguì. Non solo per la mostra che ha ripercorso la sua vita, le sue canzoni ed i suoi gesti, e per il concerto di Benedetto e dei suoi amici, ma perché la storia e il presente del Meeting non sarebbe pensabile e vivibile senza quello che Chieffo ci ha trasmesso con la sua musica, le sue parole e la sua presenza dietro e dentro al carisma e all’amicizia di don Giussani. Un’eredità che rivive ogni volta che la nostra libertà si scioglie, si ridecide attraverso la nostra povera voce che si accende e dà voce all’uomo vero che è in noi e in tutti attraverso i suoi e nostri canti. 



Personalmente, sono debitore alle canzoni di Claudio e alla sua amicizia, in modo particolarissimo, in due momenti drammaticamente intensi e imprevedibilmente sereni della mia vita: la decisione vocazionale di entrare in seminario e gli ultimi mesi della vita di mia mamma. Era l’estate del 1986 e il tempo si faceva breve per il passo di salire a Venegono, dove sarebbe iniziata la mia preparazione al sacerdozio. Dovevo farlo, dopo la verifica nei due anni precedenti, lasciando il lavoro di ricerca e l’insegnamento nella Facoltà di medicina, che amavo e ancora mi appassionava e attraeva. La lotta tra le due passioni della mia vita, quella per le scienze biomediche e quella per Cristo, si faceva serrata ed era per me duro sottomettere la ragione all’esperienza, come ci aveva detto don Giussani riprendendo un’espressione del filosofo francese Jean Guitton. Stare a quello che mi era accaduto nell’incontro con Cristo e a quello che questo abbraccio misericordioso dell’Eterno sulla mia vita mi chiedeva, richiedeva di riconoscere la priorità del reale — la sua Presenza nella mia vita — rispetto alle mie ragioni, che non producevano la realtà ma potevano solo registrarla, e di sottomettermi, riconoscendo l’imponenza della realtà che è Cristo, inchinandomi di fronte ad essa, cioè a Lui. In quel drammatico frangente, in quelle notti insonni tentate dal dubbio e dal timore di sbagliare, mi tornavano alla mente — e non riuscivo ad allontanarle — le parole di uno dei primi canti che avevo udito ai raggi di Gioventù Studentesca, nell’ultimo anno del liceo: “Non sapere cosa dir, non saper che far. Fai silenzio dentro te ed ascolta me. Ma non avere paura, non ti fermare mai perché il mio amore è fedele e non finisce mai”. Grazie, Claudio, per avermelo ricordato in quel momento decisivo.

Quando mamma Gianna riusciva a stento parlare e a rispondermi — si preannunciava il tempo del ritorno alla casa di Dio — il dialogo con lei era molto breve, essenziale, per non affaticarla. Era diventato faticoso accettare di non poter più ascoltare tutti i suoi pensieri, i suoi ricordi, le sue preoccupazioni, e di non poterle più comunicare i miei. Una volta mi aveva chiesto di farle riascoltare i canti di Chieffo che più le piacevano. Quando ancora era nella sua casa, li sentiva attraverso alcuni “33 giri” che le avevo regalato. Portai con me un registratore sul quale li avevo incisi e trascorrevamo un po’ del tempo insieme, dopo che avevo recitato una decina del rosario, ascoltandoli insieme. L’ultima volta che questo avvenne, prima della sua morte, mi aveva confidato che la sua vita era stata bella, pur attraverso le tribolazioni della giovinezza durante la guerra e la scomparsa prematura di mio papà, che la aveva lasciata sola a gestire il negozio e a tirar grande me. “Non ho niente di cui rimproverare il Signore per me”, sussurrò. Poi ascoltammo “La strada”, che era tra le sue canzoni preferite: “È bella la strada per chi cammina, è bella la strada per chi va, è bella la strada che porta a casa e dove ti aspettano già …”. Spento il registratore, la udii bisbigliare la seconda parte dell’ultima strofa: “E’ veramente grande Dio, è grande questa nostra vita!”. Grazie, Claudio, per aver dato voce anche a chi mi ha amato e testimoniato la sua fede fino all’ultimo istante, quando non aveva più voce.

Se non fossero state scritte e cantate le canzoni di Chieffo, saremmo tutti più poveri di domande, deboli di esigenze, ristretti di prospettive. Le risposte, il compimento, l’orizzonte non vengono dai suoi canti, ma da un Altro. Claudio ce li ha solo testimoniati e lasciati in eredità.