Nel ventennale dell’ancora oscura morte di Marta Russo, Vittorio Pezzuto, che una decina di anni fa ha pubblicato un premiato libro sulle vicende di Enzo Tortora (Applausi e Sputi: le due vite di Enzo Tortora, Sperling & Kupfer, 2008) è tornato alla saggistica, con un libro che è il risultato di almeno un lustro di ricerche (Marta Russo: di sicuro c’è solo che è morta, 668 pp. Amazon Fullfillment).



Pochi forse ricordano il caso Marta Russo, che per anni appassionò gli italiani, dividendoli tra colpevolisti ed innocentisti. Nella contro copertina del libro, Pezzuto riassume così il nocciolo del lavoro: “La mattina del 9 maggio 1997 una pallottola colpisce alla testa la studentessa Marta Russo mentre sta passeggiando in un viale dell’Università La Sapienza. La sua morte, avvenuta quattro giorni dopo, desta un enorme clamore in tutta Italia. Chi l’ha uccisa, e perché? Ben presto gli inquirenti si convinceranno che a sparare sia stato il dottorando Giovanni Scattone, con la complicità del collega Salvatore Ferraro. Il loro movente? L’assenza di un movente. Ad accusarli vi sono testimonianze controverse e una particella di bario e antimonio trovata sulla finestra dell’aula 6 dell’Istituto di filosofia del diritto. Una storia incredibile, oscura e sfuggente ma anche rivelatrice di un certo tipo di Italia, di un certo tipo di magistratura, di un certo tipo di università, di un certo tipo di giornalismo. Scritto con lo stile avvincente di un legal thriller e avvalendosi di una documentazione imponente, questo saggio ripropone per la prima volta le fasi dell’inchiesta e i diversi colpi di scena nei diversi gradi del processo che portarono alla condanna dei due giovani. Ma soprattutto, vent’anni dopo quell’omicidio, arriva a una conclusione sconvolgente su un caso che per larga parte dell’opinione pubblica resta ancora inspiegabile”.

Andiamo subito alla “conclusione sconvolgente”. Una a carattere mafioso (si voleva uccidere un’altra persona, che informò subito gli inquirenti) ed una collegata al nuovo gruppo di Brigate rosse (che successivamente uccise il prof. Massimo D’Antona, docente dell’Università La Sapienza). Mentre la prima traccia si sarebbe potuta seguire subito, la seconda sarebbe stato un possibile percorso solo alcuni anni dopo (D’Antona venne assassinato il 20 maggio 1999) quando i processi contro i due presunti colpevoli del caso Marta Russo erano però già in corso. Se ne trae l’immagine di una magistratura frettolosa e pilotata non da forze esterne ma dal proprio desiderio di “assicurare qualcuno alla giustizia” il più rapidamente possibile, dopo avere fallito nell’individuare e i colpevoli di una serie di omicidi “eccellenti” proprio in quegli anni nella Capitale. Per la reputazione del “corpo”, o della “casta”, si voleva dare prova di speditezza ed efficacia, anche se non era stato identificato un movente, gli indizi erano labili, le prove inesistenti, i testimoni poco attendibili.

A mio avviso, è diminutivo vedere il saggio come un atto d’accusa alla magistratura tramite un legal thriller in cui tanto i magistrati inquirenti quanto quelli giudicanti sono dipinti come “approssimativi”. Il caso Marta Russo è uno dei tanti che avrebbe potuto studiare, con strumenti analitici più potenti, Giuseppe Di Federico, ora professore emerito dell’Università di Bologna, che ha dedicato più di cinquant’anni ad analizzare i comportamenti effettivi dei magistrati (facendosi pochi amici nel “corpo”); il caso Russo evidenzia le disfunzioni da lui messe in luce in decine di saggi che lo hanno reso uno degli specialisti italiani di sociologia della magistratura non solo in Italia e nelle Americhe ma anche presso il Consiglio d’Europa, le Nazioni Unite e la loro agenzie. La certosina ricerca di Pezzuto dovrebbe essere inviata a Di Federico anche al fine di organizzare un seminario e dibattito.

Inoltre, il vero attore del dramma di questa vicenda, come si deduce dal libro, non sono i magistrati (un mero coretto a cappella di comprimari come in Measure for Measure di William Shakespeare) o i due imputati (a cui è stata distrutta l’avventura terrena) ma la tanto elogiata “società civile” italiana. Un vero “coro” protagonista: bastano pochi articoli di giornale per scatenare i suoi istinti più giacobini, volere assaporare condanne ad ogni costo, estendere tali condanne a dopo l’espiazione della pena (subito anche se si è innocenti), una posizione intrisa di familismo amorale alla Banfield, priva del senso dei beni “sociali” essenziali per far funzionare la democrazia. Quattro anni prima che venisse uccisa Marta Russo, e dopo 25 anni di studi e ricerche in Italia, Robert Putnam, allora preside della facoltà di scienze politiche dell’Università di Harvard, dava alle stampe Making Democracy Work, libro fondamentale ed anche amara riflessione sulla “società civile” del Belpaese.

A mio avviso, il volume va letto mettendo occhiali in cui le due lenti abbiano queste due considerazioni. Non è un Processo kafkiano in cui gli imputati non sanno perché sono accusati e si avvitano in una scala a chiocciola sempre più stretta. Non è un libro giallo in cui alla fine si sciolgono i nodi. Non è una nuova accusa alla magistratura. Documenta una “società civile” pronta a farsi manipolare da un paio di pubblici ministeri e numerosi giornalisti da dozzina, poco preparati e pronti a seguire il vento del momento.