Variazione postmoderna, un po’ sinistra e un po’ grottesca, sul tema dell’Amleto, Nel guscio di Ian McEwan riporta, in esergo, la celebre battuta del malinconico principe danese: “Oddio, potrei anche esser confinato in un guscio di noce e sentirmi il re di uno spazio infinito — se non fosse la compagnia di brutti sogni” (Atto II, scena II). 



Ma la voce narrante stavolta è davvero, materialmente “nel guscio”, perché si tratta di un feto, che ci racconta, dalla sua personalissima, parziale, cieca condizione, quanto capisce e intende del mondo che sta “fuori”. Ebbene, proprio come nell’Amleto, la madre, la bella Trudy, dagli occhi verdi come smeraldi, i capelli biondo grano leggiadramente raccolti in trecce annodate sul capo e dal grazioso, minuscolo nasino, è diventata amante di Claude, fratello del marito, e, insieme con lui progetta di uccidere il padre di suo figlio. Questi, John, un poeta, contemplativo e innamorato, ha momentaneamente accettato di farsi sbattere senza tante cerimonie fuori di casa per una “pausa di riflessione”, ma ignora che la dimora georgiana su Hamilton Terrace, ormai fatiscente, può diventare oggetto di una speculazione edilizia milionaria. Claude e Trudy, invece, lo sanno benissimo, impegnati come sono a calcolare quanto guadagneranno dal delitto, che progettano di mettere in atto con una prosaica quanto massiccia dose di liquido antigelo mescolata al frullato mattutino di John. 



L’incipit di Nel guscio è folgorante: “Dunque eccomi qui, a testa in giù, in una donna. Braccia pazientemente conserte ad aspettare, aspettare e chiedermi dentro chi sono, dentro che guaio mi sto per cacciare”. Certo, la situazione è imbarazzante, perché il feto-voce narrante (mai ci verrà detto quale nome gli è destinato) non ha alcuna esperienza diretta della vita che racconta, può solo parlare sulla base di astrazioni che creano in lui “l’illusione di un mondo noto”, e ce lo dice fin dall’inizio, quasi anticipando le nostre obiezioni: “Tra le lenzuola sento discorsi efferati e mi agghiaccia il terrore di quel che mi aspetta, di quel che potrebbe compromettermi (…). Sento dire ‘azzurro’, che non ho mai visto, e immagino un evento mentale non molto lontano da ‘verde’, che a sua volta non ho mai visto”. 



La sua condizione potrebbe sembrare edenica (“nessuno che mi contraddica o rimproveri, nessun nome, nessun precedente indirizzo, niente fede religiosa, niente debiti, nessun nemico”): tuttavia, angosciato all’idea che, morto John, incassato il malloppo, Trudy possa liberarsi del figlio neonato, affidandolo a chi sa chi, e anche mosso a pietà per la buona fede e l’amore disperato del padre per la mogliettina, il nostro eroe cerca di influenzare positivamente — ma come? — la madre, suscitando amore e pensieri affettuosi per quella famiglia che sta sfasciando. 

Tuttavia, i risultati sono scarsini: vero è che i fallimenti e l’inerzia di Amleto sono meno giustificabili di quelli di questo povero futuro neonato; però, ben al di là del pessimismo leopardiano (“Funesto a chi nasce è il dì natale”), il nostro protagonista comincia presto a disperare, ancor prima di nascere: “Incomincio a pensare che la mia inettitudine non sia temporanea (…) Che chance posso avere io, dunque, esserino capovolto muto e cieco, un quasi-figlio che abita ancora a casa, attaccato alle gonnelle della mamma, aspirante assassina, da lacci di sangue venoso e arterioso?”.

Ritornano nel romanzo situazioni e temi familiari ai lettori di McEwan, a partire dall’ossessione per l’elemento biologico e  direi anche biotico, spesso oltre i confini del macabro che già avevamo incontrato in Sabato, con il terribile e solenne racconto dell’operazione neurochirurgica che salva la vita alla futura moglie del protagonista. In quelle pagine, poi, troviamo anche un’altra delle ossessioni-virtù di McEwan, e cioè il culto assoluto della precisione lessicale, garantita, o meglio, richiesta, dall’indulgere nel campo medico-sanitario che troviamo anche Nel guscio, ma che è la cifra di questo grandissimo romanziere (a proposito, perché non il Nobel a McEwan?): pensiamo alla sequenza iniziale dell’Amore fatale, con il volo della mongolfiera, destinato a concludersi tragicamente, o ai deliranti ricordi d’infanzia del lugubre anfitrione di Cortesie per gli ospiti. Teatro del crimine di Trudy e Claude è poi una dimora lercia e trascurata all’inverosimile, che ricorderà ai “McEwaniani” di lungo corso l’ambientazione del Giardino di cemento, mentre il finale è un’allusione trasparente alla conclusione del meraviglioso Bambini nel tempo

Constatata l’impossibilità di incidere positivamente sui piani letali della coppia di amanti diabolici, e anche quella di dare allo zio Claude “una bella lezione sull’arte dell’altruismo negativo” (in altre parole, uccidendosi per strangolamento con il cordone ombelicale), il nostro eroe decide di fare la sua trionfale entrata in scena per “mettere fine a ogni altro epilogo”; e tutto questo mentre la polizia, nella persona della sarcastica ispettrice-capo Allison, inchioda i due maldestri criminali.

Ma, al di là del finale, in fondo aperto — un po’ come in Miele — varrebbe la pena di consigliare la lettura di Nel guscio anche solo per questa riflessione, vera gemma imprevista, che apre il capitolo Sette: “Nel mondo dell’incisione e della pittura ci sono artisti che si sviluppano, come i nascituri, in spazi ristretti. L’esiguità dei loro soggetti può deludere o trarre in inganno qualcuno (…) Anche in campo scientifico, capita che uno passi la vita a studiare una lumaca albanese, un altro un virus (…) Il bosone di Higgs, una cosa minuscola, forse nemmeno propriamente una cosa, è stato oggetto della ricerca di intere esistenze per migliaia di persone. Vivere confinati in un guscio di noce, vedere il mondo in due pollici d’avorio, in un granello di sabbia. Perché no, quando la letteratura tutta, e l’arte, e ogni impresa umana altro non sono che puntini nell’universo del possibile? Quando l’universo stesso potrebbe rivelarsi un puntino in una moltitudine di universi reali e possibili?”. Dove mai avete letto di recente una più meravigliosa apologia del lavoro di precisione, della nobiltà insita nel lavoro di cesello e nella fatica dello scrittore?