Erano tanti i libri di poesia che stavano sullo scaffale della libreria o sul tavolo del computer. Erano lì ad aspettare di essere letti davvero, non sfogliati velocemente come capita appena arriva il plico dall’editore. Erano lì pazienti, perché comunque sapevano che prima o poi quel momento sarebbe arrivato. E finalmente, complici anche i giorni di vacanza, sono riuscito a leggerli.
Inutile parlare di quelli che ci hanno tradito, che hanno lasciato una sbiadita impressione di sé, come capita a volte nell’incontro con alcune persone. Perché poi, se ci si pensa bene, incontrare una poesia riuscita è un’esperienza molto simile all’incontro con una persona e la poesia è, come ogni persona, un modo per rispondere con verità al destino a cui si è chiamati. E’ una risposta a una vocazione, a una chiamata che la vita fa. L’incontro con la poesia vera è sempre un incontro con un’esperienza dello sguardo, cioè con un’esperienza della realtà che poi facciamo nostra, che ci tiene compagnia.
Allora, fra i tanti libri che ho letto, certamente due sono stati in grado di diventare significativi perché capaci, attraverso le cose concrete, i gesti, la voce e la carne di cui sono fatti, di tracciare anche un giudizio, di aprire una visione, un’indicazione di senso, l’apertura di una traiettoria di comprensione del mondo in cui ci imbattiamo quasi come in un regalo inaspettato ogni volta che incontriamo una persona importante per noi.
Il primo libro s’intitola Tàsighe, ed è l’ultima raccolta, in dialetto rodigino-polesano, con innesti patavini e chioggiotti, di Nina Nasilli, edito da Book Editore nel maggio del 2017. L’altro libro, uscito anch’esso recentemente, nell’ottobre del 2016, per le edizioni de Il ponte del Sale, s’intitola Ultime corrispondenze dal villaggio ed è stato scritto da Antonio Alleva. Che in un piccolo villaggio dell’Abruzzo viveva fino a poco tempo fa e che inserisce nella sua raccolta un’intera sezione nel dialetto parlato in quei luoghi solitari.
Ora, io non credo che automaticamente il dialetto costituisca una via importante e significativa della poesia, non l’ho mai creduto: come ogni tentativo di poesia, il dialetto sfida chi scrive a essere vero e attaccato al mondo e alle cose. E questi due libri sono straordinariamente capaci di aprire varchi di semplicità dentro le cose complicate della vita e di riportare piccoli aspetti della quotidianità dentro la luce e la furia dell’eterno. Mica roba da poco. E con un linguaggio (ecco, non una lingua, ma un linguaggio, cioè un mondo intero scavato nella memoria e lanciato nell’invenzione) così vicino a chi lo ascolta, così intimo e insieme così potente. Conoscevo i precedenti libri dei due poeti, ma credo che qui ci siano le loro cose più belle. E non perché ci sta il dialetto, ma perché i loro versi abitano lo splendore noioso e stupendo della meraviglia, respirano l’ora e i passi di ognuno di noi e della vita intera. E hanno entrambi la grande capacità di dire cose enormi quasi buttandole lì: Sto morbin de vivare/ cosa’l ga da èsare?/ cosa xèo?/ sto ciaréto ch’el ne piase cusì tanto/ca no ne par mai ora da morire….La domanda che Nina Nasilli si fa con discrezione, e quasi naturalmente, non contiene forse l’eco delle nostre stesse domande e di tutti quelli, grandi poeti e non, che prima di noi hanno vissuto?
Sembra buttata lì, la cosa. E invece non c’è niente di buttato lì. C’è un pensiero che cammina su gambe e braccia e occhi e cuore, come dev’essere. Basta leggere Li chjacchjarate ‘nghë Batine di Antonio Alleva per capirlo: O Batì/ stu core stragne chëst’ ucchje chë së chjute/ dandre dandre a l’istate dë Sande Martënë/ auarde Batì ‘uarde chë spëttacule… Io mi sono ritrovato anche a leggere alcuni di questi testi a voce alta, a volere capire che intonazione, che soffio o grido potessero avere. E mi sono quasi diventati familiari quei dialetti, il dialetto di quelle parti lì del Veneto che mi è sempre sembrato così ripetitivo nei vecchi di qui che conosco e lo parlano, mi è diventato invece prezioso; quell’ostico e apparentemente ingrato parlare dei villaggi dell’interno mi è sembrato invece così capace di grazia: le cose che potevano essere chiamate a essere svilite, diventano gesti eroici, portano dentro una sapienza e una rassegnazione, una tenacia e una lungimiranza che rincuora e commuove.
Ecco allora che cosa ci fa compagnia ora di questi libri: la poesia riuscita è uno sguardo che diventa voce, è uno sguardo che si fa lingua e che, nominando le cose, ci immette dentro un mondo. Questa è l’esperienza poetica, la poesia non è altro che una specie di battesimo, il tentativo di dare un nome alle cose guardate nella loro verità. In questo senso è possibile parlare di poesia: è nella verità dello sguardo che essa diventa una voce stupita; che dice il mondo custodendolo; che diventa l’offerta, il mettere in comune quella verità incontrata. Questo è il nòcciolo di questi due libri: è l’accadere della realtà, anche anonima e improvvisa; è il nitore che vive nelle cose e nel mondo e che affiora nel miracolo del silenzio. E che ci viene restituito nel gesto ultimo della poesia, nel suo offrirsi a noi. E di cui noi dobbiamo essere grati.