Tra gli effetti della crisi finanziaria iniziata nel 2008 c’è stato quello di evidenziare la fragilità della costruzione dell’euro. La natura di tale crisi, e in particolare la forma che essa ha assunto all’interno dell’eurozona, è stata a lungo mascherata da un’interpretazione di comodo e ideologicamente di parte, che ha puntato il dito sull’irresponsabilità fiscale dei paesi colpiti, distogliendo l’attenzione dal fatto che si trattasse invece di crisi di sistema. È abbastanza ovvio a chi tale interpretazione abbia potuto giovare: da un lato i cosiddetti paesi creditori, che hanno potuto assolvere se stessi da ogni responsabilità; dall’altra a chi, ideologicamente ostile all’intervento pubblico, ha colto l’occasione per avviare un’opera di ridimensionamento del ruolo dello stato e di eliminazione delle tutele del lavoro attraverso le cosiddette “riforme strutturali”.



Che si tratti di un’interpretazione fuorviante è riconosciuto ormai ad ogni livello, sebbene il punto sia spesso dimenticato nel dibattito pubblico. Basti qui richiamare l’interpretazione “di consenso” proposta da un gruppo di economisti mainstream (tra di essi R. Baldwin, P.De Grauwe, F. Giavazzi e molti altri) disponibile sul sito di vox.eu, che ben evidenzia il ruolo della moneta unica nell’alimentare gli squilibri che avrebbero dato luogo alla crisi e nell’ostacolarne la soluzione.



In linea con questa ricostruzione, le fasi che hanno portato alla crisi possono essere così riassunte:

1) La determinazione di un cambio fisso dà ai paesi “periferici” un premio di affidabilità che, eliminando il rischio legato alla variabilità del cambio, riduce il costo di accesso al credito sui mercati finanziari internazionali; l’effetto è rafforzato dalla convinzione tra gli investitori che nell’ambito dell’eurozona nessuno Stato sarebbe stato lasciato fallire.

2) Ciò consente alle istituzioni finanziarie dei paesi “periferici” di concedere credito a condizioni generose, rifinanziandosi presso investitori esteri, finanziando investimenti e di spingendo la domanda di consumi durevoli. L’effetto non è però quello di aumentare la produttività: in Spagna (ma anche in Italia) si tratta spesso di investimenti nel settore immobiliare e il credito facile consente a imprese poco efficienti di sopravvivere. Lungi dal rappresentare quel vincolo esterno che qualcuno auspicava, l’effetto è anche quello di rendere meno urgenti riforme nella struttura produttiva. Questa fase di boom, molto vistoso in Irlanda, Spagna e in Grecia, molto meno in Italia, spinge in alto l’inflazione, erodendo la competitività dei paesi periferici rispetto all’area tedesca. 



3) Come effetto della crisi finanziaria, importata nel 2008 dagli Stati Uniti, si determina un “sudden stop”: i rubinetti del credito ai paesi periferici si interrompono bruscamente. La sfiducia nella solvibilità delle banche di questi paesi determina problemi di liquidità e rischio di insolvenza, con l’effetto di determinare crisi bancarie (Irlanda, Spagna, Grecia), fino alla crisi debitoria del 2010-11. I governi di molti paesi europei sono costretti a intervenire con operazioni di salvataggio dei propri sistemi bancari. Paesi come Spagna e Irlanda vedono il proprio debito pubblico, che prima della crisi era ben al di sotto del limite del 60 per cento, raggiungere rapidamente livelli molto elevati.

4) La crisi di fiducia, la necessità di ricorrere a forme di garanzia sostitutive in assenza di una propria banca centrale e, in alcuni casi, la necessità di ricorrere prestiti internazionali obbligano i paesi in crisi ad accettare pesanti politiche di consolidamento fiscale e deflazione, tali da ristabilire l’equilibrio con l’estero e riallineare la competitività: compressione salariale, deregolazione del lavoro, eccetera.

Rispetto alla sequenza descritta, agisce un secondo fattore, che la ricostruzione “di consenso” tende a trascurare ma è stata sottolineata da altri protagonisti del dibattito. Mi riferisco alla politica di compressione dei redditi e dei salari messa in atto con decisione in Germania. La Germania si è tradizionalmente dotata di un sistema di relazioni industriali coordinato, in grado di controllare la dinamica salariale nella propria manifattura e quindi di “manovrare” la propria competitività di prezzo; a questo si aggiungono gli effetti depressivi sui salari delle delocalizzazioni presso i paesi a Est (fuori dall’area euro) e delle riforme Hartz realizzate sotto il governo Schroeder. La compressione salariale determina bassa inflazione e contenimento dei consumi, e realizza una redistribuzione del reddito a favore dei profitti delle imprese. Tale aumento di profitti non si traduce tuttavia in investimenti interni, ma viene a sua volta incanalato dalle banche tedesche come credito ai paesi periferici.

Accanto al canale finanziario sopra descritto, gli squilibri interni all’eurozona sono dunque alimentati dalle scelte di contenimento dei consumi interni e di crescita basata sull’export della principale economia dell’area. La Germania comincia ad accumulare surplus commerciali e rafforza la propria posizione creditoria verso i paesi periferici dell’eurozona. Potremmo dire che l’economia che spesso viene definita la locomotiva d’Europa si fa in realtà “trainare” dalla domanda degli altri paesi. Tutto questo alimenta la crescita di squilibri esterni, reali e finanziari. 

Occorre soffermarsi meglio sul ruolo dell’unione monetaria. La sequenza sopra descritta non è infatti particolarmente originale, è comune a molte crisi “locali” verificatesi in altre aree del mondo nei decenni precedenti; ma è la prima volta che esso si verifica in paesi ad economia avanzata, e la ragione della novità va ricercata nel fatto che i paesi interessati, a seguito dell’adesione all’euro, non dispongono più di una moneta propria. Da un lato, il cambio fissato in modo irreversibile priva tali paesi di quel naturale meccanismo di ammortizzazione che sarebbe la svalutazione conseguente alla fuga di capitali; dall’altro, il fatto che la banca centrale sia indipendente e non più nazionale rende fragile l’elemento di garanzia di ultima istanza sulla solvibilità del paese.

Possiamo dire che la moneta unica, lungi dal fornire protezione ai paesi ad alto debito, rappresenta un elemento di fragilità per queste economie. Non disponendo più di una propria banca centrale nazionale che possa fungere da prestatore di ultima istanza, e quindi rassicurare gli investitori sulla disponibilità di liquidità sufficiente a ripagare i titoli in circolazione, i paesi debitori dell’eurozona devono negoziare il sostegno della banca centrale europea con i paesi creditori. È evidente a questo riguardo il conflitto di interessi, visto che i paesi creditori, al fine di preservare il valore dei crediti delle proprie banche e dei propri investitori, hanno tutto l’interesse a scaricare interamente sui debitori i costi del riequilibrio, spingendo per l’attuazione di politiche deflazionistiche. 

La moneta unica determina insomma una divergenza di interessi e un’asimmetria di potere politico tra creditori e debitori a tutto vantaggio dei primi. È questa asimmetria a consentire ai creditori di codificare l’austerità in un sistema di regole rigide (fiscal compact, pareggio di bilancio in costituzione ecc.) e di imporre pesanti riforme strutturali (flessibilità del mercato del lavoro, riduzione della spesa pubblica e del welfare ecc.); una politica minimamente ragionevole avrebbe per lo meno richiesto un intervento coordinato nei paesi creditori, mirante a riequilibrare il divario di competitività con azioni di rilancio della domanda.

La questione è pesante dal punto di vista economico, ma ha anche serie conseguenze sul piano politico. È sempre più chiaro che il progetto di un’Europa di eguali è completamente deragliato. La moneta unica, che doveva essere uno strumento di coesione e protezione dei paesi membri, diventa fonte di squilibrio e amplificazione delle differenze. Emblematico a questo riguardo il caso della Grecia, costretta ad accettare cure sempre più dure a difesa dell’integrità del patrimonio dei creditori, anche quando è a tutti evidente che il debito non potrà mai essere ripagato.

(1 – continua)