Parla tedesco. Ma i tratti fisici e somatici non ingannano: uomo del profondo Sud, faccia da scugnizzo, lineamenti senza grazia ma con la dura, estroversa naturalezza di un ragazzo di borgata. Un misto tra il volto scavato, pasoliniano, dei discepoli del Vangelo secondo Matteo e la malinconia di chi, emigrante per vocazione, ha conosciuto lo pane altrui e sta facendo finalmente ritorno a casa. Improbabile sandalo con calzino e fitta peluria, gli occhi incollati al finestrino da cui indica ai due figli, che non parlano la sua lingua, le rosse, sacre e sconfinate terre del Sud. “Das ist Sud Italia, ragazzi. Das ist mein Land“ — e gli occhi gli si illuminano in lampi di felicità improvvisa. Velocità e tecnologie ci hanno permesso di inviare sonde spaziali nel buio interstellare, di viaggiare indenni per gli oceani della galassia. Milano-Napoli è un lusso: ma dal regno dei Borboni verso Sud la penisola muta forma e sostanza, la lentezza investe ogni minima cellula, abbraccia tutto e risale, come il turchese pieno del Tirreno che invade occhi e finestrini del nostro Intercity 727 Napoli-Taormina coast to coast.
Per capire il Sud bisogna forse lasciarsi abbandonare, deporre ogni forma mentis e lasciare che l’armatura dello spirito si prepari a ricevere questa alta e immensa luce che batte sul verde delle agavi e il viola delle bouganville, che fa d’oro il grano, che incendia uomini e animali. A Napoli la tecnologia lascia spazio alla pura creatività. Sale il primo venditore di bibite, maglietta rossa e secchiello azzurro, il primo segnale di avvertimento contro l’arsura meridionale. I napoletani hanno mille facce, mille volti di camaleonte. Sanno inventare e inventarsi, hanno la ladra furbizia di mille metamorfosi. Sale il secondo venditore, più camaleonte del primo. Mi si avvicina con astuzia all’orecchio: “Fantassmini…fantassmini…compra fantassmini..quello che hai…offerta libera…fantassmini…”. Gli allungo un euro e lui, un poco offeso, ringrazia promettendo di bersi alla mia salute un caffè. Dopo una mezzora di viaggio il venditore di fantasmini al dettaglio si tramuta: torna indietro dall’altro lato del convoglio estraendo dal suo borsone di prestigiatore rossi pacchetti di Marlboro. Due pacchetti cinque euro. “Mò fanno bbene, guagliò. Cinque euro, guagliò”.
È interminabile il Sud: dalle pianure padane ed umide, dai pioppeti e canali ai borghi appesi alla roccia dell’Italia centrale. Dai boschi degli appennini tosco-emiliani ad una diversa pianura, i primi olivi, la prima terra rossa, il Tirreno che appare ad intermittenza lasciando nel cuore l’impronta del mare. I primi agrumeti, i primi fichi d’india che crescono abbarbicati alla pietra, nomadi del Sud, cittadini della luce e del vento aggrappati alla dura essenza naturale. È senza pietà la Calabria: penetra come una dura spina, ti brucia, ti avvampa, ti sfinisce coi suoi aspri saliscendi, ultima terra del Continente che si slancia sullo stretto verso la nobile, solitaria Trinacria. Un gesto quasi estremo, disperato, che la separa dalla grande isola per un breve tratto di mare. Villa San Giovanni: imbarcano i convogli nella pancia del grande animale. Operazione epica, di ingegneria marina, meccanica di binari e pulsanti alternata da imprecazioni in siciliano stretto, comandi per radio, urla, fanali. Si spengono le luci, si staccano i convogli in una folle processione di avanzamenti e dietrofront; il tempo è come sospeso per chi osa superare Scilla per sfidare il mare. Messina è già lì, all’orizzonte, con le sue luci accoglie i naufraghi del Continente come un fantasma risorto dalle sue stesse macerie sul mare. È un vento che porta con sé l’ebbrezza del viaggio e della scoperta, che annuncia la terraferma, che sferza e illumina i visi. Verrebbe da dire: manca poco, quasi un soffio, la Sicilia ha spalancato le sue porte al viandante. Ma è una terra regina, questa, che teme le leggi e ama i liberi spiriti, frutto di mille incroci genetici, dominata da un suo ritmo interiore.
Staccano la motrice, i convogli si biforcano tra Palermo e Catania. Si moltiplica il ritardo, cresce l’attesa, guardo la signora catanese alla mia destra indolente per il caldo, occhi e capelli corvini, in lei un vento che s’agita e porta con sé un’aria come di flamenco, un qualcosa di zingaro e gitano.
Sylvie cade addormentata sui sedili, o forse nel suo dormiveglia le scorrono nel cuore paesi, strade, il desiderio di lenzuola profumate di bianco. Un golfo smeraldo, una casa in cui fare ritorno.
Guardo fuori dal finestrino: vedo la terra di mio padre e dei miei antenati trascorrere come in un sogno mentre un vento prodigioso ci conduce più giù, verso Sud, nel cuore del tempo, nella luce calma dell’origine.