“Mediterraneo, mare di cristallo” è il taccuino di un viaggio marittimo-letterario realmente compiuto dall’autore grazie a una borsa di studio della fondazione Marc de Montalembert di Parigi (ndr).
Gibilterra, un addio oceanico
La ferrovia spagnola finisce a Línea de la Concepción, dove fa capolinea il treno notturno che ho preso a Barcellona.
Raggiungo Gibilterra con un taxi. Alla dogana, mostro il mio documento di identità, poiché Gibilterra fa formalmente parte del Regno Unito, la cui annessione risale a secoli prima.
Durante la guerra di successione spagnola, tra il 21 e il 24 luglio 1704, una squadra di 1500 soldati inglesi sbarcò nel promontorio di Gibilterra per cingere d’assedio la rocca spagnola, cannoneggiata dal mare: gli spagnoli si arresero e gli inglesi si assicurarono una posizione strategica di grandissima importanza per l’affermazione del loro potere marittimo.
La colonia britannica occupa un imponente promontorio di sabbia e rocce calcaree che forma l’estremità meridionale della penisola iberica, cui è collegata da uno stretto istmo di sabbia che divide il Mediterraneo dall’oceano Atlantico. Vista da lontano, la minuscola colonia britannica di Gibilterra si delinea all’orizzonte come una nave maestosa che si protende nel Mediterraneo. Per gli antichi greci e romani Gibilterra era una delle due colonne d’Ercole, i confini che il mitico eroe aveva istituito per segnare il termine del mondo conosciuto. L’altra colonna era il monte Jebel Musa, sulla costa del Marocco, situato 25 chilometri a sud.
Oggi, questo piccolo promontorio di terra europea è abitato in maggioranza da una popolazione mista, risultato di incroci tra genovesi, ebrei, spagnoli e britannici, e da una minoranza di britannici e marocchini. Tutti i cartelli sono in inglese, ma si parla correntemente anche Mete, la lingua che è nata da questa mescolanza etnica.
Prendo la funivia che conduce alla rocca.
Durante il tragitto, sospeso tra cielo e terra, inizio a sfogliare Il marinaio di Gibilterra di Marguerite Duras.
È la storia di un impiegato francese che, scontento del proprio lavoro e della propria donna, trova il coraggio, durante i giorni di ferie trascorsi a Firenze in un agosto torrido, di prendere una decisione che meditava da tempo: piantare la sua compagna e il lavoro. Forse Marguerite si sarà ricordata della sua esperienza di segretaria assunta presso il ministero delle Colonie a Parigi: qui nel 1932 era ritornata dall’Indocina, allora dominio francese, dove era nata nel 1914 e aveva perso, durante l’infanzia, entrambi i genitori.
E nel romanzo della Duras, l’impiegato decide di compiere il grande passo a Rocca, un paesino vicino a Sarzana, dove destino vuole che ci sia una donna ricca e misteriosa: si sa solo che lei, chiamata da tutti l’Americana, da tempo solca i mari, con la sua barca di trentasei metri, alla ricerca di un altrettanto misterioso marinaio di Gibilterra che, dopo averla amata, è sparito nel nulla…
La cabina della funivia si mette in moto, con un movimento lentissimo e cadenzato. Ci sono poche persone, poiché il flusso turistico non è a pieno regime: e poi Gibilterra non offre spiagge allettanti, è un attivo scalo commerciale e sede di un’importante base militare di sottomarini nucleari.
Mentre la cabina sale, l’orizzonte si apre: tra le navi che si stagliano nella distesa azzurra, scorgo un panfilo sul cui lato compare la scritta Gibilterra, che dall’Italia, dopo essere passata da Sète, sta per approdare nell’omonima terra.
E leggo il motivo della scelta di questo nome nel dialogo tra l’Americana e il suo “ospite” francese:
— Perché questo nome — chiesi — perché Gibilterra?
Mi tremava anche la voce. Ebbi la sensazione, dopo aver fatto quella domanda, di essermi tolto un’enorme responsabilità.
— Oh — disse — sarebbe troppo lungo spiegarglielo.
Vidi, senza guardarla, che sorrideva.
— Ho molto tempo — dissi.
— Lo so ho sentito quello che diceva a Carla.
— Ho tutto il mio tempo a disposizione.
— Vuole dire proprio tutto il suo tempo?
— Tutta la vita.
— Non sapevo — disse — credevo che fosse semplicemente ripartita per prima.
— È partita per sempre.
— Stavate insieme da molto tempo?
— Da due anni.
La situazione migliorò, incominciai a ballare meglio e a tremare meno e sopratutto mi fu nuovamente di grande aiuto il vino bevuto.
— Era una brava ragazza — aggiunsi —, ma non ci capivamo.
— Stamani, a tavola, ho visto che qualcosa non andava.
— Eravamo molto diversi ma era una brava ragazza.
Sorrise e per la prima volta ci guardammo: uno sguardo rapido.
— E lei non è bravo?
Aveva un tono dolcemente ironico.
— Non lo so — dissi — sono molto stanco.
Ballavo sempre meglio, non mi tremavano più le mani.
— Balla bene — disse.
— Perché Gibilterra? — chiesi ancora.
— Perché sì — ribatté — Conosce Gibilterra?
Di colpo ci mettemmo a parlare con semplicità.
— Oh no —, dissi.
Non rispose subito. Poi: — Sono contenta di averla incontrata.
Ci sorridemmo di nuovo.
— È bellissima Gibilterra —, disse. — Se ne parla sempre come di un importante punto strategico mondiale, senza dire che è bellissima. Da una parte c’è il Mediterraneo, dall’altra l’Atlantico: sono due cose molto diverse.
— Capisco. Davvero tanto diverse?
— Diversissime. C’è la costa africana, molto bella, un altipiano a picco sul mare.
— È passata spesso da Gibilterra?
— Spesso.
— Quante volte?
— Sedici, credo. La costa spagnola, dall’altra parte, è più dolce.
— È per la sua bellezza che…
Viene a galla la vera ragione della denominazione del panfilo. Come se l’amore con cui il marinaio di Gibilterra aveva inebriato l’Americana fosse il sale che assaporava, avidamente, ogni volta che lì lo depositavano i venti del Mediterraneo:
— Mi parli del panfilo — dissi —, del Gibilterra.
— Il panfilo non c’entra.
— Mi hanno detto che c’entra un uomo. Era di Gibilterra?
— No, a dire il vero non era di nessuna parte. Forse — aggiunse — posso davvero partire dopodomani.
Che cosa mi ero immaginato? In alto mare, come aveva detto Eolo, dovevano bastarle i marinai. Non mi tremava più la mano e il suo corpo, tra le braccia, non mi faceva più svenire.
— Non vive più con quell’uomo?
— No.
— L’ha lasciato?
— No, è stato lui — e aggiunse a voce più bassa —: Va bene dopodomani.
— Da chi dipende?
— Da me.
— Ha orari così precisi?
— È necessario — sorrise — se non altro per le maree.
— Evidentemente, soprattutto nel Mediterraneo.
Rise.
— Lì, soprattutto nel Mediterraneo.
La donna ha attraversato tutto il Mediterraneo alla ricerca del suo amato.
La stessa Marguerite, ventenne, mentre studiava in un pensionato a Saigon, si inebria del travolgente amore per l’uomo, più maturo di lei, cui si ispirò per il protagonista di uno dei suoi più celebri romanzi, L’amante.
Mentre leggo, l’occhio cade fuori dal finestrino: le cose si rarefanno.
Il panfilo sta passando di fronte a Gibilterra, mentre dall’alto della funivia leggo quel che narra la Duras: “Arrivammo a Gibilterra prima di quanto mi aveva detto, un po’ prima delle sei. Mi alzai e andai sul ponte, lei c’era già, tutto l’equipaggio dormiva, persino Epaminondas. Era in vestaglia, spettinata, probabilmente non aveva dormito molto, neppure lei. Non parlammo, non avevamo più da dirci niente, o meglio non potevamo dirci più niente, nemmeno buongiorno. Mi misi accanto a lei, e a prua, appoggiati al parapetto, vicinissimi l’una all’altro, guardammo arrivare lo stretto. Passammo davanti alla rocca sorvolata da due aerei scintillanti che giravano intorno in cerchi sempre più stretti, puntandola come due avvoltoi. Nelle bianche ville costruite sulla dinamite, addossate le une dalle altre in una promiscuità un po’ soffocante, ma altamente patriottica, l’Inghilterra dormiva, imperturbabile, sul suolo insanguinato della Spagna“.
Marguerite sa bene cosa significa camminare sul suolo insanguinato dei morti, grazie ai ricordi della sua esperienza nella Resistenza antinazista nel 1943 e della sua partecipazione attiva nella campagna contro la Guerra di Algeria. Ma per l’Americana, spinta dal desiderio di ritrovare l’amato marinaio, il viaggio del panfilo Gibilterra deve continuare.
“La rocca si allontanò e con essa la sconvolgente e vertiginosa attualità del mondo. Arrivò lo stretto e con esso la sua non meno sconvolgente e vertiginosa inattualità. Le acque, insensibilmente, cambiarono colore. Spuntò la costa africana, arida e spoglia come un altipiano di sale. La sua linea implacabile fu spezzata da Ceuta. La fronteggiava la costa spagnola più riparata, più cupa, coperta dalle ultime pinete del mondo latino. Entrammo nello stretto. Apparve Tarifa, minuscola, incendiata dal sole, incoronata di fumo. Ai suoi piedi si tramava il più miracoloso cambiamento delle acque della terra. Si alzò il vento, apparve l’Atlantico. Lei si girò finalmente verso di me e mi guardò.
— E se mi fossi inventata tutto?
— Tutto?
— Tutto.
Tra noi le cose diventano inevitabili. Era come se me lo dicesse.
— Non cambierebbe molto —, dissi.
Il panfilo virò, le acque diventarono verdi e schiumose, lo stretto si allargò. Ci fu un totale cambiamento nel colore dell’acqua, del cielo e dei suoi occhi. Lei ci aspettava, guardando verso prua.
— Allora — dissi — siamo a questo punto?
— Sì — disse — a questo punto.
Mi avvicinai a lei, la presi per un braccio e la condussi via.
Eravamo a Tangeri da un’ora quando si addormentò. Non ci eravamo scambiati neppure una parola“.
Marguerite, la cui fama aveva oltrepassato i confini nazionali, muore nel 1996 a Parigi all’età di ottantuno anni.
Ma ecco che, dall’alto della funivia, mi abbaglia il luccichio delle acque verdi dell’oceano.
E questo colore mi fa sovvenire una pagina del libro Viaggio alla fine del Millennio di Abraham B. Yehoshua, il quale, nato a Gerusalemme nel 1936, vive ad Haifa dove insegna nella locale università.
Questo romanzo narra la storia di un altro viaggio: nell’estate del 999 il ricco mercante ebreo Ben-Atar salpa dalla luminosa Tangeri alla volta della lontana Parigi, sperduta cittadina nel cuore di un’Europa trepidante per lo scoccare del fatidico anno Mille, con il desiderio di ritrovare l’amato nipote Eraphael Abulafia, suo socio in affari.
Così è descritto un attracco della sua nave in uno dei suoi viaggi commerciali: “E quando il veloce veliero passò lo stretto di Gibilterra e il calmo e immutabile azzurro delle acque del Mediterraneo si mescolò al subdolo e ammaliante verde del grande oceano che lambiva le coste della sua città natale Tangeri…“.
Due scritture, quella della Duras e di Yehoshua, due lingue e due culture, che si incontrano nell’estrema punta occidentale del Mediterraneo, dove l’Africa e l’Europa si sfiorano, dove le acque, insensibilmente, cambiano colore. Miracolo della scrittura mediterranea.
(6 – continua)
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