Possiamo ricavare dalla Divina Commedia un insegnamento utile per la crisi economica odierna? Forse sì. Per esempio nel VII canto dell’Inferno (versetti 16-96).
Siamo al quarto cerchio, dove sono collocati insieme gli avari e i prodighi, cioè coloro che in vita non utilizzarono il denaro con giusta misura. Sono condannati a fare rotolare dei massi con gran fatica, scontrandosi e imprecando l’uno contro l’altro, cambiando direzione ma restando sempre all’interno del cerchio, andando avanti e indietro, ricominciando sempre — eternamente — da capo. Virgilio dice a Dante che qui vede svelato l’inganno dei beni materiali, i quali sono affidati alla fortuna e per i quali l’umanità tanto si accapiglia.
Dante, sorpreso dalla spiegazione, chiede al Maestro cosa sia questa “fortuna”, che decide la destinazione dei beni del mondo (“che i ben del mondo ha sì tra branche”). Virgilio risponde che, come Dio ha creato i cieli e stabilito per loro chi li conduce — le intelligenze angeliche —, così, per quanto riguarda i beni e le ricchezze del mondo (gli “splendor mondani”), ne ha affidato la conduzione alla fortuna. Questa “general ministra e duce” si incarica di passare le ricchezze da una gente all’altra, secondo criteri che il senno umano non afferra, “per ch’una gente impera e l’altra langue,/ seguendo lo giudicio di costei,/ che è occulto come in erba l’angue” (il serpente). L’uomo non può nulla contro ciò — “vostro saver non ha contasto a lei” — e “le sue permutazion non hanno triegue:/ necessità la fa esser veloce”.
Dunque, secondo Dante, Dio ha predisposto un’apposita “intelligenza” che amministri i beni terreni. Essa, la fortuna, stabilisce quando le ricchezze debbano cambiare di mano e quali genti debbano prosperare o decadere, secondo l’imperscrutabile giudizio divino.
Questa cosa, apparentemente un po’ assurda è, a ben vedere, molto saggia e realistica.
Cominciamo a chiederci: se così stanno le cose, come è possibile basare la propria azione economica sulla fortuna? Come si può far “scienza” su questo? Scienza forse no, ma comportamento ragionevole sì. Per esempio, alcuni filoni di studi economici — come quelli legati ad Hayek — danno grande importanza alla inconoscibilità totale dei fattori in base ai quali decidere l’operare economico. Ludwig M. Lachmann e G.L.S. Shackle parlano di realtà caleidoscopica, in cui i fattori si combinano continuamente in nuove figure e lo scenario evolve in modo imprevedibile. O’Driscoll e Rizzo mettono alla base dei loro studi economici l’ignoranza come fattore strutturale.
Come, dunque, il concetto dantesco di fortuna ci può essere utile nel capire il fare economico?
Esso getta una luce sulla crisi economica e sulla spiegazione dei cicli economici. La fase di boom, infatti, a cui sempre segue una fase recessiva, è anche dovuta ai tanti imprenditori che nel periodo della crescita pensano che i loro risultati siano dovuti unicamente alla propria bravura. E allora moltiplicano iniziative e investimenti per accrescere il proprio successo. Così facendo, si staccano dalla considerazione di ciò che accade e serve nel mondo reale (a quali bisogni rispondono con la loro azione) e ripetono pedissequamente schemi strategici che nel loro caso — particolare e contingente — avevano funzionato, attribuendo a questi schemi il proprio successo.
Inoltre questi imprenditori “agiranno assumendo che i saggi di cambiamento da loro osservati debbano continuare all’infinito” (C. Ferlito) generando sovra-investimento e mal-investimento. Quando nel tempo — sempre galantuomo — si scopre che la realtà è diversa, diventa evidente all’improvviso che tutto ciò che si è costruito, impegnando energie e capitali, è diventato “cattedrale nel deserto”, una grande costruzione totalmente inutile (e… Npl! I famosi non performing loans).
Il fatto che esista la fortuna comporta umiltà, obbedienza, occhi aperti, attenzione a quel che succede e non solo a quel che si pianifica, disposizione a ricominciare, ad imparare sempre e di nuovo, a non temere il futuro (che, come va male, può andare anche bene), a fare il possibile, a credere che una possibilità ci sia sempre, a non annichilirsi se le cose vanno male (tutto il contrario dell’etica protestante illustrata da Weber nel famoso saggio sul capitalismo).
Esistono grandi imprenditori e manager che dicono, raccontando la loro storia: “…E poi ho avuto anche fortuna”. Di solito sono i migliori, i non violenti, i veri generatori di uno sviluppo per tutti. Quelli di cui oggi c’è tanto bisogno.