Il contesto della terza guerra mondiale a pezzi contribuisce certamente a spiegare la spinta crescente della società moderna verso il nomadismo del meticciato. Ma connettere e intrecciare le diversità non è solo fonte di instabilità problematica da governare. Quando l’incontro con l’altro è aperto e reciprocamente leale; quando non ci si ripara dietro la maschera del pregiudizio e dello schema ideologico prefabbricato, l’altro si rivela non solo come un’incognita che ci sfida, ma anche come una ricchezza venuta da lontano, come una risorsa che, se adeguatamente integrata dentro un ordine complessivo, produce un ampliamento degli orizzonti, un innesto positivo di energie nuove, trasformandosi in una potenzialità che può trascinare verso la costruzione di un futuro comune.



Cerco di fornire un riscontro molto concretamente personalizzato di questo lato efficacemente stimolante e fecondo dell’apertura all’incontro con la diversità culturale. Cito l’esempio di una famiglia di profughi cristiani iracheni, che hanno dovuto abbandonare in tutta fretta la loro casa, i parenti e gli amici di Baghdad, all’indomani della seconda Guerra del Golfo, dopo la caduta di Saddam Hussein.



La storia dell’esodo forzato di questa famiglia è diventata la materia di un libro commovente, che fa molto riflettere, e che proprio per questo sono felice di aver aiutato a pubblicare. Ma ancora più prezioso è il dono dell’amicizia che ci ha portati a incrociare i nostri destini segnati da storie completamente difformi, trovandosi loro catapultati, per colpa della violenza dell’estremismo fanatico, a pochi chilometri di distanza da dove vivo. Eppure, nessuno della mia famiglia parla, come loro, una versione dell’aramaico vicina alla lingua della Palestina ai tempi di Gesù. Noi non veniamo dalla terra di Abramo e forse non vedremo mai i due fiumi che già il Vecchio Testamento indicava fra i corsi d’acqua del Giardino primordiale. Siamo diversi, eppure possiamo spartire insieme qualcosa di più essenziale e originario, che ci rende responsabili gli uni del bene degli altri, restituendoci una consanguineità che deriva, in questo caso, dall’essere impastati della medesima coscienza di uomini credenti nell’unico Signore della storia.



Rubo ancora un briciolo di attenzione per segnalare un dettaglio a prima vista del tutto marginale (secondo me, però, non è affatto così) di questa possibilità di unità al di là e attraverso le differenze che oggettivamente ci separano. In occasione di una visita recente, questi amici iracheni mi hanno mostrato l’immagine di un santo da loro particolarmente venerato: san Charbel Makhlouf, santo monaco della Chiesa maronita libanese, vissuto tra il 1828 e il 1898, canonizzato nel 1977, e la cui festa si celebra il 24 dicembre. A lui molti cristiani del Medio Oriente ancora oggi si affidano con devozione, invocando aiuto e protezione nei momenti di prova che attentano alla salute e mettono in pericolo la vita delle persone care. 

Così usavano fare anche gli amici di cui sto parlando, che in segno di riconoscenza per l’assistenza ricevuta in un frangente delicato per la vita della loro famiglia già meditavano di recarsi in pellegrinaggio, una volta ottenuta la cittadinanza e il passaporto italiano, sul luogo della sepoltura che custodisce il corpo-reliquia di questo santo taumaturgo fiorito ai margini della nostra modernità orgogliosamente borghese: un santo asceta tipicamente orientale, che ha saputo trattenere in sé la forza e il prestigio di una tradizione di santità plurisecolare, rilanciandola dentro la realtà del mondo contemporaneo.

Deborda ampiamente nello straordinario la vicenda di cui egli è stato il centro. Dopo l’educazione in monastero e l’ordinazione sacerdotale del 1859, la sete di assoluto, subito contrassegnata dalle voci di guarigioni giudicate miracolose, lo spinse a chiedere di ritirarsi dalla comunità per passare a una vita di rigidissima penitenza e continua preghiera nella solitudine dell’eremitaggio, dove poi si spense a 71 anni di età. Gli eventi eccezionali si moltiplicarono senza tregua dopo la morte, creando l’alone di un culto dotato di strabiliante forza di espansione dal basso, per volontà imperiosa del popolo dei fedeli. I testimoni parlarono di una luminosità inspiegabile che filtrava dalla sua tomba. Il corpo riesumato fu ritrovato intatto, e per di più incredibilmente soggetto alla traspirazione continua di uno liquido sanguineo, che costringeva a cambiare periodicamente le vesti che ricoprivano la salma. La notizia di questi fatti assolutamente anomali, la caccia appassionata alle reliquie, le attestazioni di guarigioni e nuovi miracoli si accompagnarono a lungo all’impressionante continuità della trasudazione di origine misteriosa, segno di una forma minimale di vitalità resistente al blocco della morte biologica, che cessò di essere riscontrata solo dopo il riconoscimento papale della santità del monaco maronita.

Il prudente scetticismo di noi occidentali, da tempo vaccinati contro gli ardori mistici di miracoli, visioni e macerazioni inflessibili della carne, che proiettano la fisicità materiale nella dimensione dell’ultraterreno, potrebbe indurre a liquidare sbrigativamente il fenomeno come ingenua reviviscenza di una fede arcaica, rimasta arretrata rispetto al progresso vincente della scientificità tecnologica postilluminista. Ma san Charbel può giocare anche su questo terreno un brutto scherzo, scompaginando le carte dell’ovvio risaputo. In effetti, lui non è rimasto solo un esotico santo orientale, paladino della diaspora dell’antica comunità di rito antiocheno rimasta in comunione con il papa cattolico per difendersi dalle scelte teologiche ritenute erronee, in senso monofisita, della più ampia Chiesa siriaca. Vissuto all’ombra dei cedri del Libano, san Charbel ha scavalcato i mari e ha trovato accoglienza anche nel cielo della santità delle Chiese di altre tradizioni, fin nel cuore del nostro vecchio continente europeo. 

La suggestiva conferma viene dall’abbazia cistercense di Hauterive, nella Svizzera franco-tedesca del nord-ovest, rimasta in parte cattolica. Qui a diversi decenni di distanza dal ritorno dei monaci, nel 1939, in un sito che non aveva potuto sfuggire alle soppressioni di metà Ottocento, san Charbel, ormai elevato al rango di santo, con il suo bel volto semitico coronato da barba fluente, si è conquistato l’onore di occupare uno dei due altari laterali della porzione pubblica della chiesa del monastero, disponendosi niente meno che a fianco della Vergine Maria, titolare dell’altare-gemello. Ma gli artefici dell’innovazione non erano dei “levantini”: il loro primo nucleo proveniva dal Vorarlberg austriaco, e a questi seguirono monaci reclutati in primo luogo nelle varie contrade dei territori elvetici. Nei centri di Roma e di Milano, ugualmente, le chiese delle comunità parrocchiali maronite sono altri luoghi in cui si coltiva la memoria del santo monaco libanese.

Attraverso i corpi dei santi, il culto delle loro reliquie e la stima rivolta agli ideali di cui sono stati umili testimoni si sono tessuti i fili invisibili di una comunione che ha costruito ponti di collegamento tra i diversi poli dell’intera cristianità, ben prima che di ponti e dialogo si cominciasse a discutere anche molto animatamente, come è naturale che sia. I ponti hanno messo in contatto il nord e il sud del continente, e prima ancora l’Oriente e l’Occidente dell’intero mondo mediterraneo. È stato così fin dall’inizio più remoto: san Girolamo, sant’Elena e le reliquie della santa croce non hanno fatto altro che replicare il destino riservato a figli del popolo ebraico come Pietro, Paolo e Giacomo. Più avanti nei secoli, le presunte reliquie dei Magi, san Marco e san Nicola di Myra (oggi in Turchia) si sono inseriti nella medesima scia dell’unità nella più fantasiosa pluriformità. San Charbel è un anello moderno di questa catena che ci tiene agganciati alla sorgente da cui discendiamo.