Pensiamo alle Dolomiti e alla loro bellezza. E poi pensiamo ad alcune salite che rappresentino tanta bellezza. Difficilmente ci sfuggirà il nome di Armando Aste (1926-2017), scomparso il 1° settembre scorso.
Citare tutte le imprese di Armando non è possibile per tante che sono. Basti dire che è stato uno dei più grandi alpinisti italiani. Ha rappresentato un’epoca. È attorno agli anni 50 che Aste si rivela come uno dei massimi alpinisti del Dopoguerra. Arrampica in gran parte sulle pareti più difficili delle Dolomiti.
Le sue vie, come la Aste-Susatti alla Punta Civetta. O la via dell’Ideale sulla Sud della Marmolada d’Ombretta (definita da Messner come una delle più difficili scalate delle Alpi). Oppure, sempre sulla Sud della Marmolada, la via della Canna d’organo. O ancora le tante vie aperte sulle Dolomiti di Brenta, come il Gran Diedro sulla parete nord del Crozzon di Brenta e la via Concordia sulla Cima d’Ambièz, sono degli autentici manifesti di un’arrampicata che mira alla linea perfetta, alla Bellezza (con la B maiuscola) appunto. Un’arrampicata e un alpinismo che Aste ha sempre interpretato anche come ascesi spirituale. Ma anche prime salite di grande spessore in ambito extraeuropeo, basti citare la prima italiana alla Torre sud del Paine (con Vasco Taldo, Carlo Casati, Nando Nusdeo, Josve Aiazzi). Oppure salite storiche come la prima italiana della Nord dell’Eiger (con Pierlorenzo Acquistapace, Gildo Airoldi, Andrea Mellano, Romano Perego e Franco Solina).
Armando Aste si distinse subito arrivando molto presto a superare i massimi livelli di difficoltà alpinistiche ma anche, successivamente, come scrittore e perfino poeta. Nella vita Armando era un “operaio comune” alla Manifattura Tabacchi di Rovereto, al tempo una fabbrica di 1500 persone. Diventerà poi operaio specializzato con la patente di fuochista e più tardi capo operaio della centrale termica. Quella sarà la sua palestra di ginnastica. Scriverà: “Per produrre il vapore necessario alla lavorazione del tabacco si dovevano bruciare 120 quintali di carbone ogni giorno. Quello era il mio allenamento durante la settimana, perché mi ero abituato a spalare usando alternativamente la destra e la sinistra”.
Ma ciò che lo distingueva maggiormente dagli altri alpinisti era il suo approccio, profondamente religioso, alla montagna. Di questo Aste, del suo essere profondamente credente, non ha mai fatto mistero, anzi ci ha lascato numerose testimonianze riportate nei libri da lui scritti e in alcune poesie che vale veramente la pena leggere.
Riporto solamente alcuni passaggi che rivelano il suo pensiero e la sua fede, come quando scrive: “Un uomo vero senza complessi è quello che è, cioè rimane se stesso ovunque. Io sono un credente e sono un alpinista. Voglio dire che non vivo la mia vita a settori. Se sono un credente lo sono a trecento sessanta gradi, cioè sempre. Anzi direi che mi scopro tale soprattutto proprio in montagna che suggerisce ancor più il bisogno di trascendenza che è insito nell’animo umano. Io sono orgoglioso della mia Fede che considero l’unica vera ricchezza che possiedo”.
E poi ancora passaggi di rara bellezza e senso religioso: “Mi piace guardare alle montagne come immagini materializzate dell’ascendente cammino dell’uomo e sono grato ad esse che fin dagli albori della conoscenza certamente aiutarono e quasi costrinsero il pronipote degli ominidi, l’uomo, a levare lo sguardo, camminare in posizione eretta e così accorgersi dell’esistenza del cielo… Al di là della supposta realizzazione di sé, del gioco edonistico e addirittura della possibile creazione artistica ideale, se penso all’inestinguibile sete che mi spinge ai monti, sete di bellezza e di poesia, ansia di superamento, bisogno di coraggio, sento che è soprattutto un insopprimibile bisogno di trascendenza che sta alla base del mio alpinismo. Sento di essere un cercatore di Infinito”.
La sua non è stata per nulla una vita facile; nato da una famiglia povera, ma ricca di fede, altri cinque fratelli, tutti mancati prematuramente tranne due, di cui uno, Franco, emigrato in Svizzera; dei suoi genitori scrive: “Se mio padre mi ha trasmesso in eredità l’intelligenza della mente mia madre mi ha dato quella del cuore. Per questo credo che alla mensa del Padre celeste sarà invitata a sedersi nei posti più avanti”.
Si sposerà con Nedda, compagna di una vita (“Per un disegno della Provvidenza ho poi avuto la fortuna di incontrare la mia Nedda che non è stato un colpo di fulmine, ma l’inarrestabile conquista di ogni giorno”).
Era all’apice del successo alpinistico quando, nell’85, diede l’addio a tutto per dedicarsi al fratello Antonio, malato di meningite. Da allora, e per i 23 anni di coma di Antonio, i suoi ex compagni di scalate lo hanno visto stare sempre al suo fianco. Racconta quella scelta così: “Dal giorno in cui si ammalò smisi di andare in montagna perché sentivo il dovere di dare. In una ipotetica graduatoria di valori, l’alpinismo viene dopo l’amore, il vero amore che significa prendersi cura e condividere. Viene dopo la famiglia, dopo il lavoro, le amicizie, dopo la condivisione. L’alpinismo non può essere un fine, ma solo un mezzo di promozione umana. Perché il Padre Eterno, quando sarà il momento non mi chiederà quante scalate ho inanellato, ma cosa ho fatto per gli altri”.
Termina la sua esistenza terrena praticamente da solo ma non per questo sconfortato, anzi sorprendentemente lieto: “Anche se sono solo nella mia bella casa di Borgo Sacco, assistito da Svitlana, la mia bravissima badante cattolica ucraina, rimango in fiduciosa attesa, anche se come dico spesso, non ho fretta di andarmene perché mi piace sempre essere ottimista. Poiché malgrado tutto la vita è bella e degna di essere vissuta. Per questo ringrazio sempre il Signore anche per quello che mi ha tolto e per quello che mi ha dato. …Anche mio fratello Franco che vive a Basilea, con la sua bella famiglia, è sul viale del tramonto, ma ci sono tramonti che tutti si fermano ad ammirare”.
La montagna, le cime, quelle cime tanto amate, per Aste sono state il paradigma del cammino dell’uomo che tende sempre verso l’alto, verso l’Infinito, un paradigma che lo fa dire: “Cammino portandomi appresso un pugno di terra e un pezzo di cielo”.
Roberto Chillemi