(Leggi qui la prima e la seconda puntata dell’articolo)
Ma il nostro europeista ben intenzionato ragiona forse in modo più pragmatico: l’integrazione politica serve per distribuire in modo più simmetrico il potere decisionale rispetto all’attuale contesto di negoziazione tra governi, dove i rapporti di forza sono schiacciati a favore dei paesi creditori.
Qui intravediamo tuttavia un vizio logico del ragionamento: ogni avanzamento del progetto di integrazione sarebbe infatti a sua volta l’esito di una negoziazione, nel quadro dei rapporti di forza dati; con un minimo di realismo dobbiamo quindi supporre che esso non possa che avvenire alle condizioni del paese politicamente più forte, che venderà caro ogni arretramento rispetto al proprio interesse.
L’idea di fare l’unione politica per “mettere la Germania in minoranza” è insomma politicamente risibile. Se sarà realizzata un’unione politica, sarà alle condizioni poste da Berlino, ovvero in linea con l’attuale impianto deflazionistico e mercantilista. Ogni ipotesi di allentare le regole di bilancio al fine di rilanciare l’economia con politiche “keynesiane” di domanda è del resto totalmente estranea alla cultura economica tedesca. Come ebbe ad affermare ironicamente Wolfgang Münchau, giornalista tedesco del Financial Times, “gli economisti tedeschi si dividono grosso modo in due gruppi: quelli che non hanno letto Keynes e quelli che non l’hanno capito”.
Ma non è solo questione culturale! Il compianto Marcello De Cecco, che pure non riteneva vi fossero alternative alla nostra adesione alla moneta unica, così descriveva la condizione dell’unione monetaria:
“La zona euro detiene invidiabile primato storico: è l’unica area monetaria imperniata su un paese creditore, la Germania. Si tratta di una condizione assolutamente anomala: mai, prima d’ora, si era data una moneta a circolazione plurinazionale costruita attorno a un paese strutturalmente esportatore, perché la funzione del fulcro di un sistema monetario è creare liquidità, non drenarla”.
Oggi è giunto il momento di chiederci onestamente se Berlino sia in grado di svolgere la funzione di fulcro del sistema monetario europeo. Ovvero, se abbia validi incentivi a ricoprire tale ruolo. La sua storia suggerisce il contrario: sin dall’unità nazionale (1870), la Germania ha registrato un costante surplus nel settore dei beni d’investimento, non a caso coincidente con l’industria bellica. Quando il paese non era impegnato in guerre d’espansione finalizzate a ritagliarsi l’agognato Lebensraum, l’efficiente industria pesante si riconvertiva alla produzione civile, che alimentava il mercato nazionale e poi — una volta completata l’industrializzazione e la messa in piedi di una poderosa rete infrastrutturale interna — le esportazioni.
Il modello tedesco è quel che spesso viene indicato come un modello export led; la sua struttura produttiva è tale da consentire una crescita trainata dal settore manifatturiero orientato all’export. Si tratta di un modello che ha un largo sostegno nel paese, anche da parte dei sindacati (con poche eccezioni), in quanto sta garantendo, pur al prezzo di larghe fasce di lavoro poco garantito e di una crescita delle diseguaglianza, livelli elevati di occupazione ed elevati profitti.
Non solo tale modello non è generalizzabile all’intera Europa; esso risulta per i paesi partner estremamente costoso, dal momento che le politiche di contenimento dei redditi e dell’inflazione impongono, condividendo la stessa moneta, una condizione di deflazione permanente per il resto del continente.
La domanda preliminare ad ogni ipotesi di riforma radicale dell’Unione dovrebbe essere allora questa: c’è modo di convincere la Germania ad accettare di essere lei il problema? Di aver un modello economico incongruente con la creazione di un’unione monetaria? Chi come me non riesce a trovare argomenti convincenti a rispondere affermativamente a questa domanda, difficilmente potrà credere alla riformabilità dell’euro in direzione di un modello più equilibrato.
La moneta unica, lungi dall’essere stato un fattore di stabilità e protezione dalla crisi, ha in realtà accentuato gli effetti della stessa, prima determinando una situazione di squilibrio e poi impedendo l’adozione di politiche correttive adeguate. Tale condizione di fragilità, propria di una moneta senza stato qual è l’euro, permane tuttora, e le misure finora messe in atto — nonché quelle ad oggi sul tavolo della discussione — non sembrano in grado di escludere il rischio che una situazione del genere possa nuovamente verificarsi. D’altra parte, proseguire sulla linea attuale comporta il lento regredire della nostra capacità produttiva e del nostro sistema di protezioni sociali, e il venir meno delle risorse necessarie ad investire e rilanciare l’economia. Mantenimento dell’euro e austerità sono le due facce di una stessa medaglia.
Appare ormai chiaro ciò che non era così evidente nella prima fase della moneta unica: a fronte di dubbi vantaggi, la moneta unica si è rivelata uno strumento di realizzazione di un progetto di riforma dell’economia europea in direzione di un progressivo smantellamento degli elementi di regolazione del mercato del lavoro, e di progressiva riduzione del sistema di welfare. Si tratta di una conclusione particolarmente triste per chi, come il sottoscritto, aveva immaginato il progetto europeo come rafforzamento di un modello sociale basato sulla sicurezza economica e il benessere diffuso. È paradossale constatare che la rinuncia a tale modello sociale è diventato il prezzo dell’integrazione.
Si è trattato di un deragliamento o tale esito era stato in qualche modo preventivato dai protagonisti degli anni in cui l’assetto di Maastricht è stato disegnato e avviato? Particolarmente illuminante a questo proposito quanto racconta l’ex governatore della Banca d’Italia Guido Carli nelle sue memorie: secondo Carli il vincolo esterno europeo avrebbe consentito di “innestare l’economia di mercato nel tessuto vivente … della società italiana, favorire la nascita di una nuova classe dirigente … l’abbattimento dell’economia mista, l’alienazione del patrimonio mobiliare pubblico” (Carli 1993). Rileggere queste parole suscita tante domande sul grado di consapevolezza di un’intera classe politica, di destra e di sinistra, e sulle reali ragioni delle scelte di allora. Domande per gli storici, ma non senza implicazioni in termini politici.
A noi resta immaginare una prospettiva, una via d’uscita. Non c’è qui lo spazio per affrontare il tema, complesso sia sul piano economico che politico, del possibile smantellamento dell’unione monetaria. Ma è chiaro che questa opzione non solo non può più essere esclusa, ma deve anzi essere presa sul serio come condizione per tornare a realizzare politiche di crescita. Il tema va affrontato con urgenza.
(3 – fine)