Quanto è tetra la Parigi di Simenon: in inverno o in estate, non manca mai una pioggia insistente; e anche nell’ultima uscita simenoniana per Adelphi, Il sorcio, i personaggi si muovono per piazze e boulevard regolarmente inzuppati d’acqua. Il sorcio (titolo originale Monsieur La Souris), edito nel 1938 e qui presentato finalmente nella bella traduzione di S. Mambrini, è un caso interessante di “Maigret senza Maigret”: infatti, non è in scena il massiccio commissario, e questo farebbe ricadere il romanzo nel novero — peraltro sterminato — di quelli che l’autore chiamava romans durs (leggere Il grande male o Il passeggero del Polarlys per capirne la grandezza). Tuttavia, Il sorcio è comunque pienamente di diritto ascrivibile nel genere poliziesco e, anzi, potremmo definirlo uno dei migliori polizieschi simenoniani, secco e preciso nell’intreccio e nella lingua. 



Va detto che, prima di fissare in Maigret il personaggio dell’investigatore che l’avrebbe reso celebre, Simenon aveva testato altri detective pensati per la serialità: uno di essi era G7, detto anche Ispettore Sancette, che a Maigret non somiglia per niente (è giovane, con l’aria timida e i capelli rossi) e che compare nella Pazza di Itterville, datato 1931 (Adelphi 2008). Il sorcio invece, nasce a partire da un’intuizione geniale del grande belga: creare un intreccio che, per una volta, rendesse protagonisti i comprimari di Maigret: Lucas, in primis, e poi lo scalognato ispettore Lognon. Ma protagonista assoluto è il Sorcio, singolare tipo di clochard, che, invece di impietosire i ricchi avventori dei locali affacciati sugli Champs-Élysées, cerca di scroccare qualche spicciolo facendoli ridere. 



Questo omino percorre instancabile le vie con una sua personalissima, sbrindellata eleganza e coltiva un sogno: comprare nella natìa Alsazia una canonica abbandonata per farne il suo buen ritiro. E, una sera — naturalmente piovosa —, mentre sta raggranellando qualche soldo aprendo le portiere agli elegantoni in fila per il teatro, gli cade in grembo un portafogli zeppo di soldi: dieci banconote da cinquecento dollari, cinquanta da cento e altre francesi. Una manna: peccato che, all’apertura della portiera, il tizio dell’auto scivola fuori, e il clochard capisce subito che è morto: morto ammazzato. Il Sorcio deve così salvaguardare il suo tesoro, ma anche evitare di farsi coinvolgere nelle indagini sul delitto. Insieme ai soldi però c’è una fotografia, che porta a una certa Mademoiselle Boisvin, ex prostituta mantenuta da un sedicente rappresentante svizzero, presto identificato col ricchissimo uomo d’affari Edgar Loëm, che a Parigi conduceva vita ritiratissima e che è scomparso. E mentre il Sorcio viene per pagine e pagine pedinato da Lognon, il povero e scorbutico Lognon, regolarmente bocciato agli esami da commissario per la sua ortografia scorretta, da Basilea calano su Parigi, per evitare lo scandalo, gli alti papaveri della società di Loëm. 



In fondo, anche i romans durs sono spesso centrati su un delitto: a volte il colpevole è chiaro, e bisogna capire il movente (come nel disturbante La verità su Bébé Donge); altrove, Simenon si compiace di entrare nei meandri della lucida follia che scorre sotto l’apparente rispettabilità della buona borghesia provinciale (come nei Fantasmi del cappellaio); qualche volta regala indimenticabili ritratti di donne, fatali a se stesse e al prossimo (La camera azzurra). Il sorcio, invece, è quello che potremmo definire “giallo procedurale”: il caso non si risolve con un colpo di genio dell’investigatore di turno, ma l’autore ci presenta il realistico svolgersi delle indagini, con le necessarie lungaggini, e anche con i tempi morti. Ma il romanzo è anche una sorta di Avere e non avere in salsa simenoniana: da una parte, i grandi affaristi, che “si riunivano nella sala del consiglio dal pavimento a scacchi bianchi e neri e in un mormorio quasi religioso, come in una cattedrale, concludevano affari colossali”; dall’altra, l’universo di chi lotta con la sorte: lo scalognato Lognon, il Sorcio, la gaia Boisvin. E, sopra tutti, c’è la superba capacità di Simenon di delineare un personaggio e di evocare un’atmosfera con poche, studiatissime parole.