Prosegue “Mediterraneo, mare di cristallo”, il taccuino del viaggio marittimo-letterario compiuto dall’autore grazie a una borsa di studio della fondazione Marc de Montalembert di Parigi (ndr).

Itaca, l’eterno ritorno

Itaca è un’isoletta verdeggiante e rocciosa buttata, casualmente, nel mare. È stata la prima impressione all’arrivo nella minuscola isola ionica, quando il traghetto ha attraccato a Porto Aetos. 



Lì ci aspettavano, credo, tutti i taxi circolanti sull’isola.

La corriera diretta a Vathi, la principale cittadina dell’isola, si inerpica per la ripidissima salita che dal porticciolo conduce alla strada principale.

La corriera, dunque, faticosamente scala la collina, percorrendo, temeraria, uno stretto tornante al di là del quale si vede, in lontananza, la presenza rassicurante di Cefalonia.



All’albergo, il proprietario mi fornisce una mappa che ritrae la sagoma dell’isola, circondata da una mare di blu; riporta le strade asfaltate, le spiagge di facile accesso, i luoghi da visitare.

Nel centro di Vathi mi siedo immergendomi nell’atmosfera locale non ancora inquinata dai turisti, che preferiscono affollare le più ampie spiagge di Cefalonia. Ordino un café frappé, dolce, senza latte. Tiro fuori la cartina di Itaca per pianificare il viaggio. Non occorre molto tempo, e non c’è neanche molta scelta: l’isola è così piccola che in un’ora di auto si raggiunge l’estremità nord. 



L’indomani, dopo aver preso a noleggio una Fiat 600, procedo all’esplorazione della patria di Odisseo.

Itaca è una famosa poesia di Konstantinos Kavafis, il quale, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1863 da genitori greci, visse a Londra e infine si stabilì nel 1892 ad Alessandria d’Egitto dove lavorò al ministero dell’Irrigazione. Si dedicò, giovanissimo, alla poesia: di lui restano 154 liriche, di forte sensualità e di ispirazione classica, pubblicate postume nel 1936.

Mi siedo sulla panchina sotto l’ombra di un olivo. Kavafis: Se per Itaca volgi il tuo viaggio,/ fa voti che ti sia lunga la via,/ e colma di vicende e conoscenze./ Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi/ o Posidone incollerito: mai/ troverai tali mostri sulla via,/ se resta il tuo pensiero alto, e squisita// è l’emozione che ti tocca il cuore/ e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi/ né Posidone asprigno incontrerai,/ se non li rechi dentro, nel tuo cuore,/ se non li drizza il cuore innanzi a te.

Itaca, l’isola di Odisseo. In questo luogo, ci si sente come “ogni autentico Ulisse contemporaneo” che “deve indossare, più che la casacca del marinaio, la vestaglia da camera […], e avventurarsi in una biblioteca, oltre — o più — che fra le isole sperdute”, per usare le parole di Claudio Magris; e più precisamente “l’Ulisse odierno deve essere esperto della lontananza del mito e dell’esilio della natura, deve essere un esploratore dell’assenza e della latitanza della vita vera”.

Itaca è anche un luogo dove riempire questa latitanza della vita vera con una vita ancor più vera, quella della scrittura, perché, come dice Marguerite Duras, “si scrive: è l’ignoto che abbiamo dentro: scrivere vuol dire raggiungerlo. È questo o niente. Si può parlare della malattia dello scrivere. Non è semplice quello che tento di dire, ma credo che ci possiamo capire (…). C’è una pazzia dello scrivere che si ha dentro, una pazzia furiosa ma non è per questo che si è pazzi. Anzi. La scrittura è l’ignoto. Prima di scrivere non si sa niente di ciò che si sta per scrivere e in piena lucidità. È l’ignoto di sé, della propria mente, del proprio corpo. Non è neppure riflessione, scrivere, è una facoltà che si ha al di fuori di noi, parallelamente a noi, di un altro che appare e si fa avanti, invisibile, dotato di pensiero, d’ira, e che talvolta, per questo stesso motivo, è in pericolo di rimetterci la vita. Se si sapesse qualcosa di quello che si scriverà, prima di farlo, prima di scrivere, non si scriverebbe mai. Sarebbe inutile. Scrivere è tentar di sapere cosa si scriverebbe se si scrivesse. Lo sappiamo solo dopo. Prima, è la domanda più pericolosa che ci possiamo rivolgere. Ma anche la più ricorrente. Lo scritto arriva come il vento, è nudo, è inchiostro, è lo scritto, e passa come niente altro passa nella vita, niente più, se non la vita stessa”. 

Ora mi rendo pienamente conto che l’essermi trovato in diversi porti del Mediterraneo, seduto a diversi tavolini a sorseggiare il caffè preparato in maniera differente, è stata la mia odissea di essere umano e di scrittore. Fa voti che ti sia lunga la via./ E siano tanti i mattini d’estate/ che ti vedano entrare (e con che gioia/ allegra!) in porti sconosciuti prima./ Fa scalo/ negli empori dei Fenici/ per acquistare bella mercanzia,/ madreperla e coralli, ebani e ambre, voluttuosi aromi d’ogni sorta,/ quanti più puoi voluttuosi aromi./ Rècati in molte città dell’Egitto,/ a imparare dai sapienti.

Ulisse compie il suo viaggio lungo il Mediterraneo, facendo molte esperienze e conoscendo meglio anche la propria e l’altrui umanità, perché — scrive Cassano — “il capitano Ulisse non può ritirarsi stanco dal proprio ruolo […] ma deve continuare a partire. Da qui una sfida antica e grande per l’uomo mediterraneo, quella di costruire collegamenti e contatti, di costruire ponti, di rendere pontos quel mare alto e difficile. Questo sapere non nasce dallo sviluppo tecnologico, ma dall’inserzione della terra e del mare”. 

L’inserzione di terra e mare diventa, nel suo simbolismo terrestre, la città-porto affacciata sul mar Mediterraneo, meta del mio viaggio.

“Fino quando continueremo” — conclude Cassano ne Il pensiero meridiano — “a ritenere che lo scorrere inevitabile verso l’Occidente sia l’unico moto possibile del giorno e che il Mediterraneo sia solo un mare del passato, avremo puntato gli occhi nella direzione sbagliata e il degrado che ci circonda non cesserà mai di crescere”.

Mi accendo un’altra sigaretta. Guardo verso il porto, dove ha appena ormeggiato un piccolo panfilo da crociera, che probabilmente sta girando il Mediterraneo. Guardo i miei appunti scritti sul taccuino con grafia frettolosa, consapevole della loro importanza: sono citazioni di due “viaggiatori-scrittori” del Mediterraneo, mare interiore, mare diaristico, che parlano di Itaca.

Marcel Vincent nel suo libro Mediterraneo, mare interiore, dopo aver progettato un viaggio verso Itaca seduto a un tavolino del caffè Gijon a Madrid, nell’isola di Odisseo ci è andato ma, appena ritornato a Madrid e allo stesso caffè, ripercorre un’odissea “trasfigurata”, grazie all’esercizio della scrittura, nella realtà del viaggio di pochi istanti tra il tavolino del bar e l’orinatoio, e perciò scrive: “Mi sono seduto al tavolo mettendo la borsa da viaggio tra i piedi e mi sono tastato il polso. Poi ho appoggiato la guancia sulla mano chiusa a pugno, e sono rimasto così fino a sera. Avevo forse l’aspetto di uno che era ormai deceduto? Allora ho rivolto lo sguardo ancora una volta verso Itaca. Accanto allo specchio c’era un cartello che diceva: ‘Ci riserviamo il diritto di accesso’. Mi separavano appena quindici passi da quell’isola e sul tragitto avrei incontrato mangiatori di loto che addentavano panini alla salsiccia appoggiati al bancone, c’era anche un piccolo territorio dei morti, e le piovre giganti di Scilla e Cariddi stavano appoggiate al baracchino sotto la scultura di Ferrant, con un bicchiere di gin in mano, e le vacche del sole giacevano ancora sul peluche rosso, ruminando lontane scene di teatro dei tempi in cui erano attrici, e Telemaco era quel frocetto che si specchiava sul fondo del caffelatte, e Circe stava leggendo il cielo di nascita a un poeta disperato, e c’erano altri resti di vari naufragi. Polifemo, con un solo occhio in mezzo alla fronte, si agitava dietro il bancone con indosso una giacchetta bianca. I quindici passi che separavano il mio tavolo dal bagno del caffè Gijon contenevano tutti i viaggi possibili, se lungo il tragitto ci si imbatteva nelle reti di qualche cuore. Alla fine ho deciso di ritornare a Itaca. Mi sono alzato per andare in bagno, attraversando in pochi secondi ogni sorta di avventura, e arrivato là, in fondo all’orinatoio, mi aspettava il mezzo limone, che era l’immagine del mondo. Ho riflettuto per un momento. Ho pensato: (…) la felicità risiede soltanto in una memoria azzurra delle cose e degli esseri che ami. Mentre mi lavavo le mani a Itaca, ho notato che sulla mensola del lavandino c’era una bottiglietta di whisky vuota, con dentro un foglietto arrotolato, forse il messaggio di un altro naufrago”.

Raffaele Nigro, nel suo Diario mediterraneo, appressandosi all’arcipelago greco, medita: “Ho molto pensato a Itaca, con tutto quanto il mito di questa isola restituisce alla mente a partire da Omero e a finire con Malerba. C’è in questo mare un mito del ritorno incarnato in due diversi modi e a distanza di millenni tra loro, è il desiderio di Ulisse dopo l’inferno di Troia e le lunghe, zigzaganti peripezie che dilatano le dimensioni del Mediterraneo fino a farne da pozza a un oceano e dall’altra c’è l’ansia del ritorno, l’esodo degli ebrei e l’aspirazione alla terra promessa. Itaca, Gerusalemme e la Palestina sono i luoghi dell’agnizione individuale e collettiva. Diversi dal sogno americano, Itaca è il luogo che si conosce e al quale si aspira, come l’Eden e dunque Gerusalemme. Entrambe costituiscono una certezza. L’America è l’illusione di ciò che abbiamo ascoltato, di ciò che abbiamo osservato attraverso la meditazione cinematografica. Un bene virtuale”.

Leggo ancora una volta la frase di Nigro: “Itaca è il luogo che si conosce e al quale si aspira, come l’Eden e dunque Gerusalemme”. Misteriosamente, sulla piantina di Itaca scopro che nell’altro capo dell’isola c’è una località che si chiama proprio Gerusalemme! Sì, decifro bene i caratteri greci, è Gerusalemme… Molto incuriosito ritorno in albergo e chiedo delucidazioni al proprietario: non c’è niente da vedere, Gerusalemme è l’antico nome di una cittadina medievale i cui resti sono ora in gran parte sommersi e, ai nostri giorni, è rimasto soltanto il nome di quella zona, che è inaccessibile via terra e raggiungibile solo via mare.

L’albergatore mi raccomanda di recarmi alla biblioteca comunale dove avrei trovato maggiori informazioni.

La piccola biblioteca comunale di Vathi da sola varrebbe un viaggio a Itaca per i bibliofili. Anche in questa torrida mattina, in cui non soffia un alito di vento, l’ospitalità greca non si è smentita. La piccola biblioteca di Vathi si trova al secondo piano di un piccolo edificio che ospita vari uffici dell’amministrazione comunale. Salgo le scale, saluto in greco ed entro in una sala oblunga le cui finestre sono tutte aperte in modo tale da creare una corrente di aria piacevole. 

Il bibliotecario è un signore sui quaranta anni: sta leggendo Tolstoj. Chiedo in un greco un po’ stentato se posso parlare in inglese. Sì.

È una persona molto cortese e affabile, un po’ strana. Dico che sto cercando informazioni sulla località di Gerusalemme. Mi risponde che quel nome viene da una tradizione tramandata da Anna Comnena (1083-1153), figlia primogenita dell’imperatore bizantino Alessio I, autrice dell’opera che celebra le imprese del padre, l’Alessiade. Mi indica uno scaffale dove posso cercare in mezzo ai libri. Rovistare in totale libertà e solitudine tra i libri accatastati sugli scaffali lignei è stato una delle esperienze più belle di questo viaggio attraverso il Mediterraneo.

Il bibliotecario ritorna al suo posto e continua a leggere, lasciandomi tutto il tempo per nuotare nel mare di libri che vanno da edizioni di primo Ottocento fino ai best-seller dell’anno prima. 

Il bibliotecario si alza e mi chiede se gradisco un caffè. Ma sì. Mentre si cimenta nella preparazione del caffè greco con l’occorrente che si trova su un tavolino vicino al bancone del prestito, mi avvicino agli scaffali dove sono conservati, quasi con premura nazionalistica, i poeti della Grecia moderna (tanto è forte la persistenza di quella antica!) e prendo in mano un volume di Kavafis.

Lo sfoglio fino a trovare l’indice; scorro la lista dei titoli fino a trovar la poesia dedicata a Itaca; cerco la pagina e leggo gli ultimi versi in greco, mentre un’odore di caffè si sparge nella piccola sala della biblioteca di Vathi: Itaca tieni sempre nella mente./ La tua sorte ti segna quell’approdo./ Ma non precipitare il tuo viaggio./ Meglio che duri molti anni, che vecchio/ tu finalmente attracchi all’isoletta,/ ricco di quanto guadagnasti in via,/ senza aspettare che ti dia ricchezze./ Itaca t’ha donato il bel viaggio./ Senza di lei non ti mettevi in via./ Nulla ha da darti più.

Chiudo gli occhi, li riapro e poi finisco di leggere: E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso./ Reduce così saggio, così esperto,/ avrai capito che vuol dire un’Itaca.

(8 – continua)

Leggi qui le puntate precedenti