Una enigmatica trasparenza fatta di segni vorticosi e di sagome estratte con l’accetta dall’albero della vita. Vincent van Gogh gode, alla banca dell’immaginario contemporaneo, di un credito illimitato a motivo della sua survoltata sensibilità, per il fatto che i suoi quadri non testimoniano solo, o primariamente, della straordinaria capacità di un pennello di raffigurare e trasfigurare brani di realtà, bensì di un’anima che depone e dispone sulla tela l’intero suo carico di tormenti e speranze, di ferite e di estasi, di un cuore che trasfonde i suoi battiti dentro la personale composizione di linee e colori. E l’imminente mostra a lui dedicata a Vicenza (7 ottobre 2017 – 8 aprile 2018, Basilica Palladiana) ribadirà questa predilezione per un sentimento della vita che precede e prevale sul sentimento estetico ed anzi lo informa.



Non ci sarà però in esposizione, tra le 129 opere, un quadro stupendo di van Gogh, dipinto nel 1889, a meno di un anno dalla sua tragica morte e che spicca, accanto a Matisse, Bacon, Nolde e Gauguin, tra le opere più significative e pregnanti della Collezione d’arte moderna e contemporanea dei Musei Vaticani — una Galleria voluta e promossa da Paolo VI per riannodare i fili tra arte e fede, tra artisti e Chiesa, in passato spesso lacerati e penzolanti ciascuno per proprio conto. 



Si tratta di una delle due Pietà — la più delicata e più cromaticamente raccolta (l’altra è ad Amsterdam) — realizzate da van Gogh a distanza di pochi giorni, in un periodo attraversato da forti crisi nervose. Questo unico Cristo dipinto dall’ex predicatore protestante giace esanime, al tramonto del venerdì santo (secondo la nordica tradizione mistico-devozionale del Vesperbild, sorgente della Imago pietatis poi ingentilita e rilanciata da Michelangelo), davanti ad una sconsolata, pallida Madonna con mani da contadina che pare nell’atto istintivamente materno di riaccogliere in grembo, quel medesimo grembo che l’aveva partorito, il Figlio appena deposto dalla Croce, quasi in un estremo, disperato tentativo di restituirgli la vita. 



A questa Pietà dell’artista olandese la studiosa Micol Forti dedica un denso e penetrante saggio (in: Iconologie, Studi in onore di Claudia Cieri Via, Campisano Editore, pp. 185-199) che fa intendere come questo piccolo olio su tela 41,5 x 31, prima ancora che soggetto sacro ad uso devozionale (le mani di questa Mater dolorosa rievocano la postura di quando tenevano Gesù Bambino in braccio e lo ostendevano al mondo mentre adesso, sembra mormorare triste e disfatta: guardatelo cosa ne avete fatto, cosa gli avete fatto!) costituisca un’immagine universale del dolore umano dalle provenienze assai lontane. E d’altronde da quanti strazi di genitori per i figli morti è lacerata la storia fino ai giorni nostri!

La Forti ricostruisce, con lettura puntuale e sagace, un percorso genealogico-artistico non privo di qualche sorpresa: l’opera di van Gogh infatti è copia tratta da una litografia in bianco e nero d’una Pietà (più vecchia di una quarantina d’anni e di cui Vincent vide solo l’incisione in suo possesso) di Eugène Delacroix, pittore anche lui con un “uragano nel cuore”. Van Gogh ammirava soprattutto il solido attracco alla realtà nella Pietà dell’artista francese (“La figura del Cristo è stata dipinta, per come la sento io, solo da Delacroix…”), il quale a sua volta era stato colpito e affascinato dalla “Lamentazione sul Cristo morto” di Rubens (“pittura meravigliosa…la sicurezza di chiaroscuro e di colore non può essere se non di un uomo che non esita e che disprezza le sciocche ricercatezze”) ma ecco, in questa fitta mappa “storico-genetica” delle filiazioni artistiche, un tornante parabolico nelle severe parole che van Gogh riserva a Rubens (“nonno” della sua Pietà): “Quando esprime il dolore umano […] perfino i volti delle sue più belle Maddalene piangenti o le Mater Dolorose mi fanno sempre pensare semplicemente alle lacrime di una bella ragazza che si sia presa magari una malattia venerea o pianga per qualche altra piccola miseria umana […] Ma nell’espressione non è drammatico”. Insomma Rubens gli appare superficiale, l’esatto contrario del giudizio di Delacroix.  

Il che ci mette di fronte ad una storia dell’arte come a un lungo torchon di debiti, parentele, discepolati, affinità e dissomiglianze che si addensano e si ridispongono di nuovo ad ogni impatto con la libertà creativa dei singoli; cosicché alla fine è l’oggettività dell’immagine che vince, permane e gioca la sua partita nel flusso della storia. Tanto che la Forti non esita a risalire all’indietro da Rubens sino al Laocoonte straziato per i suoi figli, opera precristiana riemersa da sotto terra dopo quasi 1500 anni di “sepoltura”, subito diventata la capostipite dei Musei vaticani e a cui il pittore barocco dedicò in effetti assidua osservazione e studio rifluiti poi anche nel suo “Cristo deposto”.  

“Laocoonte e i suoi figli — intuisce il grande storico storico austriaco Alois Riegl — sembrano proclamare che la sofferenza e l’imperfezione sono ormai degni di essere rappresentati dall’arte per loro stesse e non solamente per servire da contrasto. Da allora il Laocoonte diventa in un certo senso il precursore  dell’arte cristiana…”. Il Laocoonte “antenato” della Pietà di van Gogh, passando per Rubens e Delacroix: un meraviglioso sentiero bimillenario, talora carsico e dissestato, viene messo in luce e diventa percorribile. Buona passeggiata.