Per chiarire un termine sul quale vale ancora la pena di riflettere, dopo il bel titolo del libro di saggi di Thomas Mann (1918) Considerazioni di un impolitico, attiro l’attenzione su un romanzo bello e originale, che arriva quasi a sancire il trionfo dell’impolitico, e che sembra, come dicevano una volta i critici, “scritto ieri” (o addirittura domani) anche se risale al 2004: Saggio sulla lucidità, del romanziere portoghese, premio Nobel, José Saramago (pubblicato da Feltrinelli nel 2013, dove nel titolo è mantenuta con scrupolo letterale l’espressione originaria; ma si tratta in realtà di un vero e proprio romanzo).
Nella capitale innominata di un paese quasi innominato (a un certo punto l’autore si lascia sfuggire — e lo fa evidentemente apposta — la parola Portogallo, ma è evidente che il discorso di Saramago vuole andare ben al di là di quei confini) sono in funzione tre partiti: il p.d.d. = partito della destra, che è il più forte, il p.d.m. = partito della destra moderata, che lo tallona, e il minoritario p.d.s. = partito della sinistra. Il romanzo comincia con la descrizione della giornata delle elezioni, che si svolgono regolarmente. Ma quando si aprono le urne, sorpresa: il 70 per cento delle schede, regolarmente compilate, risultano essere bianche. Il governo, sconcertato, si aggrappa alla speranza che questo sia un incidente (nella mattina delle elezioni pioveva forte…), annulla le elezioni e ne indice di nuove. E qui arriva la catastrofe: le schede bianche adesso ammontano all’83 per cento!
Era prevedibile che la narrazione descrivesse il panico del governo. Ma quello che non era prevedibile è la brillante svolta del romanzo a questo punto: i dirigenti decidono di abbandonare in massa la città, accompagnati da tutte le istituzioni cittadine, dalla nettezza urbana fino alla polizia, e di costituirsi come una sorta di governo in esilio. A prima vista questa può apparire come una mossa addirittura puerile (“Allora non ci sto, e non gioco più con voi!”), ma la manovra politico-poliziesca non tarda a emergere. Il governo infatti conferma la tendenza profonda di ogni istituzione di questo tipo (almeno secondo l’idea che, a parte il romanzo di Saramago, noi abbiamo già trovato negli scritti di vari pensatori libertari e dissidenti): quella cioè di considerare alla stregua di avversari, se non nemici, prima di tutto i suoi stessi cittadini. Comincia dunque una campagna di, come suol dirsi, destabilizzazione: provocazioni, attentati esterni mascherati da conflitti interni alla città, infiltrazioni di spie, e poi addirittura interventi letali di agenti speciali contro i “biancosi” della città — questo è il termine di obbrobrio diffuso dai governativi per i votanti scheda bianca — che per qualche ragione appaiano più in vista.
Adesso il lettore si aspetterebbe dal romanzo una descrizione delle idee e dei sentimenti (o almeno di questi ultimi) degli “scheda-bianca” e dei loro modi di coesistenza con quella parte minoritaria della popolazione che ha ortodossamente votato riempiendo la propria scheda, e che anch’essa è rimasta nella città (la quale in effetti è bloccata tutt’intorno dalle truppe governative, in modo che nessuno possa uscirne). Ma qui avviene il secondo, brillante colpo di coda nella narrazione: non ci viene detto nulla delle idee e delle emozioni dei “non-votanti”; i quali continuano la loro esistenza normale, fianco a fianco con i votanti, senza scambiarsi nessuna comunicazione o discussione. Così il romanzo viene a organizzarsi, molto efficacemente, intorno a un nucleo di silenzio — che è tanto più misterioso quanto meno è parato di misteriosità; tutto si svolge dentro il realismo del quotidiano che noi tutti ben conosciamo —, il quotidiano dove si tende a evitare ogni discorso complesso o impegnativo. Il grande risultato del romanzo, insomma, è mostrare il mistero della quotidianità (e della sua imprevedibile componente di stoicismo o addirittura eroismo), come essa si riflette anche nella vita politica.
Peccato che, nella parte finale, il romanzo cambi bruscamente stile e prospettiva, mettendo improvvisamente in scena due personaggi edificanti, che nell’ultima pagina vengono uccisi da un sicario governativo (è come se questa debole coda del romanzo fosse stata pensata nei termini di una sceneggiatura cinematografica). Ma allora, qual è il senso fondamentale del romanzo, che resta molto bello?
A me pare che tale senso risieda nel suo silenzio ribelle: gli scheda-bianca non si spiegano — e la loro non-spiegazione non è arcigna, ma mite e pervasa dalla (come si diceva) semplicità della vita quotidiana. Saggio sulla lucidità non è primariamente un romanzo fantapolitico, o utopico/distopico. È un romanzo profetico; come tale, è un romanzo che comprende se stesso soltanto in parte; che è corso, per così dire, in avanti a se stesso. Ed è proprio in questo che consiste, in ultima analisi, il suo valore.