Il tradurre ci sfida nel rapporto con l’altro, che sia un testo, una persona o una cultura. Nel rapporto con i testi la sfida si mostra in modo esemplare quando ci troviamo innanzi a traduzioni diverse di uno stesso testo perché si tratta di qualcosa che destabilizza le nostre certezze. La certezza ad esempio che il senso sia stabile e non sia soggetto al modo in cui una comunità o un singolo lo guarda.



Nel caso di testi come quelli biblici, questo è particolarmente delicato perché traduzioni diverse o anche sfumature diverse sottintendono diversi modi di accogliere il testo. Del resto le traduzioni possono allontanare o avvicinare le comunità alle Sacre Scritture, come ha riconosciuto anche Papa Francesco quando ha lodato la nuova versione della traduzione in lingua corrente perché “è un’idea buona, perché la gente semplice può capirla, perché è un linguaggio vero, proprio, ma vicino alla gente”. 



Direi che questo confronto con il testo e quello che ci dice attraverso le varie traduzioni lo troviamo un po’ in tutti i testi biblici. Tuttavia in alcuni di essi la questione appare ancora più evidente. Un esempio è Qohelet, potremmo anzi dire che pochi testi dell’Antico Testamento sono stati oggetto di tante interpretazioni come questo. La sua stessa inclusione nel Canone non è stata mai pacifica e probabilmente è stato il fatto di contenere all’inizio e alla fine insegnamenti legati alla Torah e di essere collegato al nome di Salomone che ha fatto decidere la tradizione ebraica in questo senso. Ma è un testo che non è entrato facilmente in ambito cristiano tanto che, ad esempio, non viene mai citato dai Vangeli e solo con il secondo Concilio di Costantinopoli (553 d.C.) vennero eliminati i dubbi sul suo valore ispirato. Del resto la stessa datazione e l’identità dell’autore sono incerte. Come si diceva, il testo è attribuito a Salomone ma la presenza di espressioni persiane (2.5 e 8.11), il riferimento ad altre parti dell’Antico Testamento (2.5, il giardino dell’Eden) e alle vite di Giuseppe (4.14), Davide (4.13), Giobbe (5.15) e Salomone (1.1, 12, 16; 2. 4, 9) fanno pensare che fu scritto fra il secondo e terzo secolo a.C. 



Riguardo all’autore sappiamo poco. Come è noto, il termine Qohelet è il participio presente femminile di qahal che significa riunire in assemblea, convocare. Il femminile oltre al genere può indicare, come accade nell’ebraico postesilico, una funzione che pur se di forma femminile ha un significato maschile. Il significato può essere dunque: “colui che parla in assemblea”. La traduzione greca Ekklesiastes rimanda a Ekklesìa come traduzione di qahal nel senso di assemblea e dunque chi partecipa all’assemblea. Lutero tradurrà con “il Predicatore”. 

Un’altra questione riguardante l’autore è la sua collocazione storico-culturale. Dà una buona sintesi della discussione monsignor Gianfranco Ravasi (Qohelet, Cinisello Balsamo, San Paolo 1998) individuando sostanzialmente due linee. La prima trova tracce linguistiche di un dialetto nord-palestinese simile al fenicio retrodatandone la composizione e collocando il testo nel nord d’Israele. La seconda linea ha sottolineato i diversi aramismi del testo e dunque esso apparterrebbe ad un periodo post-esilio. 

Questa difficoltà intrinseca del testo si riflette anche sulle varie interpretazioni che in estrema sintesi, con l’aiuto ancora di Ravasi e di Antonio Bonora (Qohelet la gioia e la fatica di vivere, Brescia, Queriniana 1987), potremmo dire seguano tre linee principali. La prima è quella considerata più nuova dalla tradizione cristiana ma è quella che possiamo ricondurre alla tradizione ebraica. La liturgia sinagogale infatti ha usato proprio Qohelet come uno dei cinque rotoli per la festa Sukkôt, la festa della Capanne che ricorre in autunno, ed è la terza e più allegra delle feste del pellegrinaggio. Secondo questa interpretazione, non è la vita in sé a essere un peso ma l’incapacità o la rinuncia a farne oggetto di pensiero. La rinuncia a pensare è la vera morte perché impedisce di riconoscere Dio. La seconda linea è quella che interpreta tradizionalmente Qohelet come il testo della sconfitta innanzi alla morte e dell’arbitrarietà del tutto. La disperazione è il risultato, ma questa è anche la provocazione e lo scandalo. La terza interpretazione, già presente in Lutero, è quella che ne fa il filosofo dell’aurea mediocritas, raccogliendo l’indicazione dell’ultima parte del testo. Lutero parla esplicitamente di “libro di consolazioni”, consolazioni da ciò che non si può cambiare della vita e a cui occorre opporre costanza e pazienza. 

Dunque il grande vuoto di cui parla la traduzione di Lutero è quello di chi si rende conto che nulla va come dovrebbe andare e quindi ogni fatica e lavoro sono vani. Certo, queste “consolazioni”, che negavano ogni fuga dal mondo, erano perfettamente adatte a quella borghesia nord-europea che andava affermando la propria autonomia anche sul piano religioso. È dunque un vuoto che si oppone nettamente alla vanitas tradizionale cristiana, ad esempio, come ricorda Ceronetti, quella monastica espressa da San Bernardo che in qualche modo rimanda all’interpretazione di San Girolamo.

Tutte le letture comunque insistono nel dare importanza a un termine centrale: hevel, che è posto all’inizio e alla fine del testo quasi a chiudere in un cerchio ideale l’argomentazione: Havel havalim hakol havel.

Il termine è il centro di tutto il libro, appare 38 volte. Qual è il significato? Soffio o nebbia leggera, dunque qualcosa che scompare velocemente. Ravasi ha ripreso, molto opportunamente, il significato del termine nelle diverse lingue semitiche che lo possiedono, giungendo alla seguente area semantica: in tardo ebraico e tardo aramaico: soffio caldo, vapore, fumo, alito, nulla; in siriaco: polvere; in arabo: vapore, fumo, vento; in tardo egizio ed etiopico: vento; in mandeo: alito, soffio, vapore, fumo. Ed in effetti, hevel è usato per definire gli idoli (Dt 32, 21; Ger 8.19) ma è usato anche con rûah (appunto alito o vento, ad esempio in Is 57.13, in Ger 51.17-18) e con šeqer (menzogna) come quando Giobbe definisce la vita hevel in 7,15 e rûah in 7,7. Dunque il senso di un nulla che però è al contempo un qualcosa. Non un vuoto ma una nebbia evanescente. Tutto è come nebbia evanescente che c’è ma è così impalpabile da non poter essere toccata. La stessa idea che è possibile ritrovare nel Salmo 39: “…Sì è come soffio ogni uomo/ Sì, come ombra è l’uomo che passa/ accumula ma non sa chi erediterà… “. Tutto è fumo e nebbia che modifica l’essenza stessa delle cose. Potremmo anche dire che l’unica certezza è questo fumo o nebbia che ci avvolge e rende difficile qualunque comprensione. Probabilmente in questo sta la forza eversiva di Qohelet.

Come tradurre questo termine? La storia delle varie letture di Qohelet è anche la storia della traduzione di hevel.

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità tutto è vanità (Conferenza Episcopale Italiana). Le traduzioni tradizionali, dalla King James a quella appena citata della Cei, riprendono la traduzione di San Girolamo e in definitiva quella della Settanta. Girolamo ha infatti chiaro il valore complesso del termine ebraico. È comunque il valore di caducità cui il termine ebraico rimanda che è alla base della sua interpretazione. Tuttavia in Girolamo questa inutilità è vera solo relativamente; il mondo è vanità rispetto a qualcosa di più grande. Qui Girolamo dà inizio a quella che sarà la lettura allegorica cristiana. Perché l’interrogativo di Girolamo è preciso: come è possibile che tutto sia di una vanità totale quando è comunque opera di Dio? È vano, dice Girolamo, non per sé, ma se comparato a Dio. Inutilità e indeterminazione non sono assolute. Hevel diventa dunque imperfezione finché non trova il completamento in Dio: “tamdiu omnia vana sunt, donec veniat quod perfectum est”. L’assurdità dunque è tale solo fuori della storia sacra e dentro di essa ritrova il termine ultimo rispetto cui confrontarsi.

(1 – continua)