Nell’ormai celebre crime story sulla banda della Magliana, Romanzo Criminale, Giancarlo De Cataldo fa dire a uno dei suoi personaggi, un plenipotenziario dello Stato deviato, che nel Novecento non c’è posto per il razionalismo hegeliano. È il secolo di Magritte: ogni cosa avviene per caso e il potere non è più, come per Schmitt, decidere sullo stato d’eccezione, bensì mettere ordine nel caos. Il pittore René Magritte (1898-1967) è più pacifico di quanto ricordi il personaggio di De Cataldo e non era un creatore, né un elogiatore, del caos. Al contrario, il pittore belga asseriva di limitarsi a mostrare il mistero del mondo, la sua insondabilità ai mezzi comuni, senza pretendere di imprimervi un filo logico.
Non è per altro uno di quei pittori sediziosi che anima le notti di Montparnasse o di Montmartre con un bicchiere sempre in mano, un verbale di polizia e una rissa dietro l’angolo. Non è un genio che si brucia in poche tele: è un pittore prolifico, che pur non rinnegando mai alcune sue simpatie parigine non disdegna Bruxelles e la provincia italiana (con le sue terme, i suoi duomi e le sue piazze).
È noto in particolare per un dipinto che ha poco della storia delle arti figurative per come la conosciamo, sembra più un geniale, irridente, astuto, manifesto stilistico-espressivo: “Il tradimento delle immagini” (1928-1929), dove la riproduzione, quasi scolastica, quasi dozzinale, di una ordinaria pipetta ci avvisa “questa non è una pipa”.
È come decidere una finale di Coppa del Mondo quando hai diciotto anni. O sei Pelé (o Magritte, appunto) o sarà complicato reinventarti. L’opera di Magritte di picchi ne ha molti altri e, anche se meno conosciuti, parimenti amati dagli estimatori del pittore. Ci sono “Gli amanti”, stessi anni, con la testa coperta da un panno. Qui la critica è divisa: alcuni dicono che ciò ripropone il dramma del suicidio materno (la madre morì avvolta fino al capo da una vestaglia, annegata), altri, forse più lungimiranti, si accorgono che Magritte sa. Sta per iniziare il dramma degli anni Trenta: gli amanti sono coperti per la loro rispettabilità borghese, ma è anche il contesto che spinge i prudenti a non mettersi troppo in mostra.
Il Magritte degli anni Venti ne combina una più del diavolo, è vero, ma il ragazzo è sempre dalla parte del bene, come dimostra quell’altro capolavoro, troppo spesso associato all’ambiguità, chiamato “L’Assassino minacciato”, in realtà nato ancor prima delle opere già citate. Il probabile killer silenzioso ascolta musica davanti al cadavere di una donna nuda: tre spioni alla finestra, due muniti di mazze lo aspettano all’uscita per suonarlo come si deve. Ma allora il male dov’è, se il male è dappertutto? È la lascivia del corpo nudo o l’omicidio? O ancor più in quelli che bastoneranno il killer? E se fosse proprio in quelle civette che registrano tutte le immagini, impietriti in finestra, senza muoversi di una virgola?
Magritte è sempre e comunque dalla parte dell’uomo, il suo irrazionalismo apparente è tutto fatto di appunti di critica sociale.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, vecchio, malandato (anche se morirà per un cancro al pancreas diagnosticatogli, si dice, nell’ultimo anno di vita) ha il tempo di lasciare l’individualismo novecentesco ancora a riflettere. C’è la pioggia di uomini di Golconda, nel 1953, dove Magritte rielabora probabilmente l’intuizione di Munch sull’alienazione contemporanea (cittadina). E c’è beffardo, quasi il compimento di un sogno, persino il gusto dell’autocitazione nel senile “I misteri dell’orizzonte”. Gli uomini in bombetta, con le loro pipe che non sono pipe, si affacciano alla luna. La giostra è pronta per fermarsi. Quest’ansia misteriosa era solo il prequel e Magritte ci lascia una didascalia non scritta: “ancora non sapete quel che deve arrivare”.