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Cosa succede nelle traduzioni moderne? Naturalmente in questa sede non possiamo fare una storia delle traduzioni di Qohelet, vorrei tuttavia accennare a cinque traduzioni. Credo infatti che anche solo mostrare rapidamente le direzioni che può prendere una traduzione ci possa dire già molte cose sul rapporto col senso di un testo.



Un infinito vuoto / dice Qohélet / Un infinito niente / Tutto è vuoto e niente (Guido Ceronetti 1970).

Fumo di fumi / dice Qohélet / Fumo di fumi / Tutto non è che fumo (Guido Ceronetti 2001).

Spreco di sprechi ha detto kohèlet, spreco di sprechi il tutto è spreco (Erri De Luca 1996).

Buée de buées a dit le Sage buée / de buées tout est buée (Meschonnic 1970).



Névoa de nadas / disse O-que-Sabe // névoa de nadas / tudo névoa-nada (Haroldo Campos 1991).

Dunque: vuoto, nebbia, spreco, vapore acqueo o condensa (buée), un nebbioso nulla (névoa-nada). Quale scegliere?

Il caso di Ceronetti è interessante perché fra le due versioni ci sono trent’anni e il cambiamento è significativo, si passa dalla sottolineatura del valore del vuoto all’insistenza sulla caligine che, certo, svanisce rapidamente e quindi è emblema della vanità, ma impedisce anche la visione e la comprensione. Ci si affaccia sul vuoto come un abisso, non si vede nel fumo, si va a tentoni nel “nebbione”.



Allo spaesamento che abbiamo innanzi all’abisso si sostituisce il perdersi della caligine. Dante immagina così l’inferno. Si potrebbe dire allora che forse la realtà è mutata per l’uomo Ceronetti. L’affacciarsi sull’abisso è pur sempre una certezza, l’immenso fumo è impossibilità di percezione e, in fondo, impossibilità di pensare. In questo caso ciò che mi sembra particolarmente interessante è che non sono le trasformazioni della lingua a suscitare la nuova traduzione, non è tanto la nuova lingua italiana del 2001 a condurre a una traduzione, quanto piuttosto i cambiamenti del rapporto di Ceronetti con la realtà a rendere moralmente necessaria una nuova versione. 

De Luca traduce con spreco. Egli sottolinea l’identità linguistica di hevel con hevel/Abele: “I traduttori non hanno attribuito alcun valore alla perfetta uguaglianza di Abele con hèvel. Non posso fare come loro, perché voglio credere che in quella lingua e in quei libri nessuna parola è libera, tutte sono serve di un pensiero sacro: che vuole essere interrogato almeno secondo la lettera per cedere frammenti di senso da un discorso infinito” (Kohèlet. Ecclesiaste, Feltrinelli 1996: 12). Questa somiglianza conduce ad una riflessione su quello che può essere Abele nel testo sacro, perché non si tratta tanto di individuare una somiglianza funzionale che ricostruisce la convenzione linguistica secondo altri schemi, quanto di ripercorrere un itinerario di pensiero, certo oscuro per noi oggi, ma necessario secondo De Luca per la comprensione: “Allora tento per Abele ‘spreco’. Spreco è il suo destino di vita abbattuta giovane, è il suo sangue versato sulla terra/’adamà’. Egli è il primo spreco di Adàm, frutto spiccato verde, sparso in terra senza discendenti. Nessuno di noi è figlio di Abele” (ib. 13). De Luca assume tutta la responsabilità della “manipolazione” dichiarandola esplicitamente e per la quale è stato duramente attaccato, ma ci provoca richiamando un tipo di fedeltà radicalmente diverso da quello cui la tradizione moderna ci ha abituato.

“Buée” è il vapore acqueo o la condensa, in francese des vitres couvertes de buée significa “vetri appannati”. Dunque Henri Meschonnic ha voluto sottolineare l’aspetto di opacità dell’espressione qoheletiana. La realtà è opaca, non è perfettamente riconoscibile, può essere intuita forse o interpretata tentando di posare lo sguardo al di là del visibile. L’idea di vuoto implica un atteggiamento morale sull’esistente, “buée” è un giudizio fenomenologico. 

Il lavoro di Meschonnic su Qohelet sposta l’attenzione dal senso dell’inutilità dell’esperienza umana al sentimento di un’impossibilità di dare senso, con uno scarto assolutamente moderno. Non si trova jitrôm (guadagno) perché non si riesce distinguere le cose da dietro il vetro appannato. 

In Haroldo de Campos troviamo infine il tentativo di uscire dai confini posti dalle traduzioni tradizionali tentando, come Meschonnic o Ceronetti, un lavoro sul campo semantico del termine ebraico. Ma se in De Luca il percorso “etimologico” è rivolto a cercare la lacerazione originaria ricreando il testo in un italiano sorprendente, mentre in Meschonnic il francese è come se tentasse di ritrovare una fase perduta, qui si procede in un altro senso. In questa traduzione è sottolineata non solo l’estraneità del testo di origine; questa diventa il grimaldello che permette di immergersi nella ineffabilità del testo. E così Haroldo de Campos dà un bel colpo a quanti tendono a convenzionalizzare e semplificare le interpretazioni di questo passo. Ma Haroldo de Campos comprende bene che la questione fondamentale è come interpretiamo questo vuoto e questa realtà insostanziale. Così l’idea di un nebbioso nulla è ben diversa da quella di un nulla che è vuoto: il secondo pone l’uomo come eroe solitario in una sfida al destino, il primo ne fa un essere disorientato e perso come il nonno di Amarcord: “Ma dov’è che sono? Mi sembra di non stare in nessun posto. Mo se la morte è così… non è mica un bel lavoro. Sparito tutto: la gente, gli alberi, gli uccellini per aria, il vino”. 

Che conseguenze possiamo trarne? Mi sembra che innanzitutto queste traduzioni ci mettano di fronte ad un paradosso. Sono tutte vere, non dal punto di vista rigorosamente linguistico o filologico (ad esempio il testo di De Luca suscita più di un dubbio), ma tutte in qualche modo testimoniano un modo di stare di fronte alla realtà che possiamo capire o nel quale possiamo riconoscerci. Una non esclude l’altra. È come se di fronte a ogni lettura ci sorprendessimo a dire: “sì, potrebbe essere anche così” perché è così che mi sento, perso nella nebbia, incapace di vedere cosa c’è al di là dei vetri appannati, con il sentimento di aver sprecato il mio tempo in questo mondo, con le vertigini sul vuoto. In questo senso la traduzione è come se sfidasse la chiusura del testo chiedendogli di aprirsi, di darci una possibilità in più. Potremmo dire che le diverse traduzioni ci appaiono come i frammenti di un senso più profondo cui possiamo aspirare e che, se raggiunto, compirebbe il nostro desiderio di pienezza. Per questo tradurre non è semplicemente cercare di comunicare qualcosa che non capiamo in una lingua, ma è una vera e propria ricerca di compimento di senso che non può necessariamente finire. E l’irrequietezza che ci provocano queste traduzioni diverse, queste tracce che vanno in direzioni tanto varie, è la stessa irrequietezza che riempie le nostre esistenze quando capiamo che la realtà ci interroga sempre in modi nuovi. Ecco, tradurre ci insegna che dobbiamo lasciare sempre aperto un varco perché il senso possa trovare liberamente una strada. 

(2 – fine)