Se è vero, come Pound fa dire a Olga Rudge in uno dei suoi canti postumi, che “agli italiani non interessa combattere gli stranieri” ma solo “combattersi tra di loro“, ecco allora spiegato il fiorire — quando si parla della Catalogna arroventata di questi giorni — di tanti più o meno insospettabili campioni dell’autodeterminazione. Trascuriamo i cattolici oltranzisti cui forse, oltre che avvinghiarsi al naturale favor della Chiesa per la libera aggregazione sociale, converrebbe anche interrogarsi sulle ragioni di questo favor, e non trasformarlo in slogan da galline di cortile. Ma gli altri: internazionalisti e mondialisti della peggiore specie, tutto a un tratto pronti a colmare la bocca propria e le orecchie altrui di parole come “popolo”, “libertà”, “indipendenza”, senza dimenticare — come arma contundente verso i retrò — il passe-partout “fascismo” con i suoi derivati.
Loro, di norma servi onnifagi del senso comune più scontato, accentratori e tecnocrati senza remore, oggi no: oggi tutti paladini della libera espressione, perché quando si tratta di andare in guerra coi coglioni degli altri — ché di questo, se non si fosse capito, si tratta — sono sempre pronti. Tanto quel che conta è difendere e perpetrare l’ideologia dell’arbitrio indefinito, l’idea che i nostri legami con la realtà e con la storia li decidiamo noi, e non la stessa realtà e la stessa storia in cui — volenti o nolenti — ci ritroviamo a nascere e vivere.
Ecco perché allora, stanco davvero non delle parole ma del loro quotidiano abuso strumentale, mi affido a quelle di Dragan Gunjaca. Avvocato, militare nella marina jugoslava fino a pochi mesi prima della guerra civile, nel 2003 scrive e porta in scena la pièce Roulette balcanica, subito pubblicata in italiano grazie all’intuizione di Alessandro Ramberti e delle sue edizioni Fara. Ambientazione: un appartamento di Pola, in Istria. Protagonisti, Petar e Mario, amici fino al giorno prima e ora, d’un tratto, nemici, anche se a Mario non interessa e non vuole crederci. Nemici, sì, perché da ieri non siamo più in Jugoslavia, ma in Croazia. E Petar non è più un cittadino jugoslavo e servitore del suo esercito, ma è un serbo — peggio: un serbo in divisa. E perciò un invasore. Perché i suoi vecchi ospiti, i suoi vecchi vicini di casa, sua moglie persino, hanno deciso così. Hanno deciso che una storia insieme non conta, né tra territori, né tantomeno tra uomini. Petar, gli piaccia o no, è un invasore:
“Io, un idiota! Va bene, forse lo sono, ma dai, spiegami una cosa. Sono arrivato qui una ventina d’anni fa e non mi sono più mosso. Sono seduto dove stavo seduto ieri, vesto ciò che vestivo ieri, faccio ciò che facevo ieri, ma oggi sono diventato un invasore. Ed ecco, tu che sei mio amico — metà della nostra vita l’abbiamo trascorsa insieme — spiegami perché ad un tratto sono diventato un invasore se non ho mosso un dito. Non ho attaccato nessuno, tanto meno ho sparato a qualcuno, e non ne ho l’intenzione, però cazzo, sono diventato un invasore. Come mai?“
Nel cuore dell’Europa, settembre 1991.