Poco prima che le librerie venissero inondate, a partire dal 12 settembre scorso, dalle copie dell’ultimo romanzo di Ken Follett, La colonna di fuoco, ideale prosecuzione dei Pilastri della Terra e di Mondo senza fine, le Edizioni Dehoniane di Bologna hanno proposto, nell’estate, con la traduzione e ricca prefazione di A. Zaccuri, Bad Faith – Cattiva fede (pp. 80), un memoir in cui il romanziere racconta la sua formazione religiosa e il clima familiare in cui è cresciuto. 



Follett infatti nacque nel 1949 a Cardiff in una famiglia appartenente a una congregazione religiosa molto rigida, i “Fratelli di Plymouth”, che si erano separati dalla Chiesa di Inghilterra nel XIX secolo. Troppe volte tendiamo infatti a dimenticare, come ci ricorda Zaccuri nella Prefazione, che le vicende della Riforma in Inghilterra non nascono né si concludono con l’Atto di Supremazia di Enrico VIII e la costituzione della Chiesa anglicana; tutta una serie di congregazioni (battisti, presbiteriani, metodisti, calvinisti) rifiutarono di “conformarsi” all’Atto di uniformità proclamato nel 1662 dal Parlamento. Il risultato fu il crearsi di comunità spesso piccolissime e molto diffidenti l’una nei confronti dell’altra. 



L’impressione più forte che trapela fin dalle prime parole con cui Follett ricorda la sua infanzia e la sua prima giovinezza è, infatti, quella di chiusura e di esclusione, oltre che di diversità rispetto ai suoi coetanei: “Da bambino non avevo il permesso di andare al cinema. Ce n’era uno in Cowbridge Road, a Cardiff, non lontano da casa mia, e quasi tutti i ragazzi che conoscevo ci passavano la domenica mattina a guardare film senza pretese, serie con i cowboy e i razzi spaziali, Robin Hood e il cane Lassie”. Ma questo al giovane Follett era vietato.

Per giunta, nella sua famiglia, sia il padre che il fratello di questi avevano sposato due ragazze cugine fra di loro, così da congiungere ancora più strettamente tre famiglie già abbastanza ampie; tutti i quattro nonni appartenevano alla congregazione, ed erano vietate le nozze con persone esterne alla congregazione stessa. Chiusura e separazione erano quindi delle costanti nella storia della congregazione, con effetti paradossali e dolorosi: uno zio dell’autore, per ribellione giovanile, esasperato, lasciò tutto per arruolarsi in marina; ma poi, pentitosi della ribellione, aderì a un gruppo ancora più minoritario, gli Exclusive Brethren, in cui, per esempio, era vietato consumare i pasti con persone non appartenenti alla congregazione. Perciò, a una cena familiare, lo zio prese il suo piatto e se andò in una stanza  a mangiare da solo; e non potè andare nemmeno al funerale della sorella, madre dell’autore, perché era una funzione di una setta rivale, e dovette limitarsi a “starsene in piedi in mezzo alla strada guardando, da lontano, il carro funebre che si allontanava”. 



Come stupirsi allora se, cresciuto in questo clima, il giovane Ken Follett divenne un cristiano tormentato, e se poi all’University College di Londra scelse di studiare filosofia, nella speranza di poter superare e chiarire i suoi dubbi su Dio? Certo, scrive Follett, “non si discuteva molto di religione, ma in privato mi misi a esaminare le convinzioni religiose sulla base di criteri logici. Nessun dato di fede superò mai la prova”. 

Al momento della laurea, Follett era diventato ateo; un ateo arrabbiato, per giunta, perché sentiva di essere stato ingannato e defraudato di tante esperienze infantili e adolescenziali che gli erano state precluse; soprattutto, sentiva come l’aver lasciato che le decisioni morali relative alla sua vita fossero state, anche nei primi anni della ragione, demandate ad altri, l’avesse privato di una parte della sua umanità, secondo quel procedimento che Sartre chiamava mauvaise foi, cioè “malafede” (da qui il titolo del memoir di Follett), o, diremmo più semplicemente “autoinganno”.

E poi? La filosofia si rivelò non la fine, ma l’inizio del viaggio. Follett ricorda la celebre frase di Picasso, come quattro anni gli erano stati necessari per imparare a dipingere come Raffaello, e una vita intera per imparare nuovamente a dipingere come un bambino. A Follett bastarono tre anni di college per diventare ateo, e tutto il resto dell’esistenza “per ritrovare, grazie a un improbabile girotondo, una qualche forma di spiritualità”: il modo in cui questo avvenne è curioso e originale, e insieme rivela quel mistero che sta alla base di ogni incontro, intellettuale o personale. All’inizio della sua carriera di romanziere, Follett si era reso conto di non possedere un adeguato linguaggio per la descrizione degli edifici e per questo iniziò a leggere la Storia dell’architettura occidentale di Robert Fourneaux Jordan. Le grandi cattedrali medievali iniziarono a esercitare su di lui un fascino potente: edifici enormi, costruiti con gigantesco dispendio di risorse e fatica, che rispondevano a un desiderio davvero potente della gente dell’epoca, povera per la gran parte, e per la quale edificare una cattedrale era un’impresa a dir poco indicibile, nella consapevolezza di non riuscire a vedere la fine dei lavori e l’opera completa, privilegio che sarebbe forse toccato ai loro nipoti o pronipoti.

I pilastri della Terra, uno dei romanzi più celebri e fortunati di Follett, racconta appunto la costruzione di una immaginaria cattedrale, e come questo progetto entri in collisione e condizioni, e trasformi, la vita di tutti coloro che ruotano intorno a esso. Nel racconto serviva però, anche solo per questioni di mero realismo – ammette con obiettività Follett – una figura credibile di cristiano e uomo di Chiesa, che, nel romanzo, è il priore Philip, uno dei personaggi migliori usciti dalla penna dell’autore, e che lo ha portato a ripensare le sue opinioni sulla religione. 

Al di là del paradosso di un romanzo imperniato sulla costruzione di un edificio sacro scritto da un ateo, un’ulteriore spinta per Follett a riconsiderare il suo rapporto con il sacro è stato il suo secondo matrimonio, con un’esponente del Partito laburista: ritrovandosi attivamente impegnato nelle attività del partito, Follett ha scoperto con sorpresa che molti suoi alleati erano cristiani praticanti, e ha scoperto così “che nel mondo reale ci sono molti priori Philip, angosciati dalla pevertà materiale e spirituale del loro prossimo”: insomma, lo sprezzante rifiuto giovanile per i credenti ha iniziato a scemare e, anzi, a procurare in Follett un certo imbarazzo. Anzi, dopo che la moglie è stata eletta deputata, lo scrittore ha anche iniziato a frequentare le funzioni religiose, come ci si aspetta dal coniuge di un parlamentare britannico, rendendosi conto di apprezzarle, e ha continuato anche quando non sussisteva più un obbligo in proposito. 

E così, se dovesse definirsi oggi, Follett userebbe un altro ossimoro: “un ateo non praticante”, che va in chiesa con piacere, specialmente ai vespri; ammette di continuare a non credere in Dio, ma di trovare importanti non solo l’architettura e la musica sacra, ma anche le parole della Bibbia di Re Giacomo, e, soprattutto, il senso di condividere qualcosa con chi gli sta accanto. Ne deriva un senso di pace spirituale e di consolazione: come conclude Bad Faith, “quanto tempo ci occorre, spesso, per capire le verità più semplici”.