“Dopo Falcone e Borsellino, perché lo Stato trattò con la mafia?” è il titolo del nuovo libro del nostro collaboratore prof. Salvatore Sechi. A pubblicarlo è l’editore Goware in edizione digitale. Altrettanto interessante è il sottotitolo: “Sul documento inabissato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie”. Di questo tema ilsussidiario.net  ha parlato con Sechi più volte. C’è un mistero che non si riesce a penetrare, ed è la decisione del ministro della Giustizia, nel governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, Giovanni Conso, all’inizio di novembre 2003, di non applicare il regime del carcere duro ai boss mafiosi. Ne abbiamo parlato con Sechi partendo proprio dal Guardasigilli di allora. “Guardi che non si tratta per nulla di uno sprovveduto — spiega Sechi —. E’ stato uno maggiori penalisti italiani, docente universitario, ex presidente della Corte costituzionale e del Csm. Era stato ministro, sempre della Giustizia, nel governo guidato da Giuliano Amato. Ciampi lo aveva confermato nello stesso incarico”.



E per di più era un cattolico fervente.

Sì, come lo stesso capo dello Stato Scalfaro e l’ex premier Aldo Moro, ma  per nulla bigotto. La sua attenzione ai problemi di libertà e di dignità delle persone era straordinaria e rivolta a tutti. 

Il provvedimento “buonista” di Conso come venne giudicato da Cosa nostra?



Riina ne fu entusiasta e spiegò ai suoi sodali che invece di scendere a trattative con lo Stato occorreva dargli un altro “colpettino”, cioè fare altre stragi. Venne, infatti, messa a punto quella che avrebbe dovuto seminare una carneficina di grandi proporzioni tra le forze dell’ordine. Il luogo prescelto era la collina intorno al campo sportivo in cui aveva luogo la partita tra Roma e l’Udinese.

Lì si appostarono i fratelli Graviano, che sono tornati all’onore delle cronache in prima pagina per le minacce rivolte a Berlusconi. Ma l’agguato non ebbe luogo solo per un incidente tecnico?



Poteva essere risolto e la strage di centinaia di carabinieri sparsi intorno al campo sportivo essere eseguita. La verità è che i Graviano ricevettero l’ordine di non insistere sull’ecatombe.

Ma se era in corso una trattativa con lo Stato, come mai Riina e  Provenzano si prendono la licenza di farla fallire in maniera così plateale?

La trattativa aveva al primo posto l’eliminazione dell’articolo 41 bis. Con esso era stato instaurato un regime al limite della costituzionalità e della stessa umanità nelle carceri in cui erano detenuti i mafiosi più pericolosi. 

Però l’inasprimento delle condizioni carcerarie fu opera dei ministri della Giustizia e dell’Interno del governo Andreotti, cioè il socialista Claudio Martelli ed il democristiano Enzo Scotti.

Sì, ha ragione. Avevano pensato di infliggere ai detenuti di Cosa nostra la fine di ogni rapporto con l’esterno. Non potevano più trasmettere ordini alla manovalanza. Dunque, teoricamente i boss non avevano più potere. In realtà, in pratica le cose andarono diversamente. Durante i molti tragitti, dalle isole, dalle città, dai piccoli centri per essere presenti ai loro molti processi stabilirono contatti con altri detenuti, avvocati, parenti eccetera. Fu ricostituita e ravvivata la catena gerarchica.

E Cosa nostra sopravvisse al sistema di vincoli creato da Martelli e Scotti. Dunque, una sconfitta?

La mafia, pur essendo stata colpita duramente, si trovò a fronteggiare uno Stato in disfacimento, senza autorità, minato dal conflitto tra amministrazione, potere politico e magistratura. 

Sono gli anni in cui venne applicata senza limite la custodia cautelare?

I magistrati di Milano, cioè Mani pulite, usarono l’arma della carcerazione preventiva per indurre persone non ancora formalmente imputate a confessare o accusare altri. E’ probabile che Conso abbia pensato che mitigando le condizioni detentive (cioè non applicando il 41 bis) i boss avrebbero posto termine alla campagna stragista scatenata non più in Sicilia, ma sul territorio nazionale.

Fu uno scambio ineguale. Ma chi nel governo Ciampi sostenne questa linea di Conso?

I provvedimenti di Conso non furono mai discussi in seno al governo. Era un suo potere prorogare o far cessare l’applicazione del carcere duro.

In questo suo nuovo volume lei pubblica per la prima volta un documento inedito. Fu proposto dal gip di Palermo Antonio Tricoli (oggi giudice a Sciacca) ed esaminato, e anche integrato, da magistrati come Salvatore Scaduti, Marco Alma e da lei, che è uno storico. Ebbene, questo testo non è facilmente accessibile a chi voglia consultarlo.

Ma neanche è stato secretato.

Quale interpretazione della vicenda sostenete?

Avanziamo l’ipotesi che la regia della forma di negoziato intavolatasi tra Stato e Cosa nostra abbia avuto come protagonisti, insieme a Conso, il capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, il capo della polizia Vincenzo  Parisi, il consenso (più passivo che entusiasta) del ministro dell’Interno Nicola Mancino, del capo del dipartimento Affari penitenziari Nicolò Amato, degli ispettori religiosi delle carceri, di una parte del mondo cattolico.

Ma è il caso di ricordare che sia Mancino sia Amato sono stati sempre ostili ad ogni forma di trattativa con Cosa nostra. Anche in seno al Pci la politica carceraria di Martelli e Scotti non aveva molti sostenitori. 

Il documento non esclude che l’uccisione di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone possa essere stata un’operazione che la mafia potrebbe avere concordato con poteri criminali esterni, anche internazionali. Ma questa è un’ipotesi sostenuta dall’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato.

Sia Amato sia il capo della polizia Parisi, come la Dia, hanno addotto degli elementi reali a sostegno di questa pista?

Certamente.

E ce li può riassumere? 

In primo luogo la mafia non uccide come il terrorismo arabo-palestinese e quello colombiano, facendo saltare col tritolo mezzo chilometro di autostrada. In secondo luogo, in seno al gruppo dirigente di Cosa nostra si era aperta una discussione lacerante.

In che cosa consisteva?

La linea stragista aveva portato all’uccisione di Lima, Falcone e Borsellino, come agli attentati alle chiese e alle città d’arte come Roma, Firenze e Milano. Il dubbio che assale i boss è che fosse stata poco redditizia, cioè avesse avuto un dividendo negativo rispetto al rezzo pagato (il 41 bis).

Effettivamente nelle fila di Riina aumentarono i collaboratori di giustizia, i pentiti. La domanda che l’organizzazione criminale fosse entrata in crisi si diffonde.

Il risultato è che la linea della delegittimazione del governo e dell’investimento sulla potenza di fuoco di Cosa nostra viene progressivamente abbandonata. Ma non esistono prove che ciò sia avvenuto per una accordo stabilito con Berlusconi.