Cosa ci stanno a fare i poeti? Così si chiedeva Hölderlin in Brot und Wein. Ma la sua era una domanda retorica, diceva subito dopo, infatti, che i poeti cantano ispirandosi alla traccia degli dei fuggiti, cantano il Sacro, mettendo gli uomini di fronte alla mancanza che è la sostanza del loro tempo. Insomma, se qualcuno è in grado di interpretare e leggere l’essenza del tempo, quelli sono i poeti. E in modo ancora più acuto sono in grado di raccontare il tempo della mancanza, della crisi. Qualche decennio più tardi Pasolini, però, amaramente scrisse: “Nessuno ti richiede più poesia!” come a constatare una sconfitta; ma la sua non era una resa delle armi: il valore della poesia rimane, tanto è vero che ne “Il sogno della ragione” il poeta friulano dice: “Ora la mia speranza non ha/ sorriso, o umana omertà:/ perché essa non è il sogno della ragione,/ ma è ragione, sorella della pietà”. 



Nell’epoca della crisi, nell’epoca in cui la poesia non è mai stata tanto poco richiesta, essa continua a rispondere alla chiamata: la realtà è positiva, anche quando mostra il suo volto contraddittorio e negativo. A questo volto negativo non so sorridere, dice il poeta, ma riconosco il dato, gli vado incontro con quell’apertura e quella capacità di riconoscimento che è il pensiero, la ragione. La speranza è figlia della ragione, non del suo sonno; la speranza, anzi, è la ragione, sorella della pietà. Il primo compito della poesia è quello di essere fedele alla ragione, a una ragione come capacità di accogliere l’esperienza, come finestra spalancata sulla realtà. Ma la ragione che accoglie è sorella della pietà: pietà come capacità di piegarsi, come custodia e cura di ciò che ci viene incontro, come misericordia.



Accogliere e custodire è il compito che, anche nella crisi, soprattutto nell’epoca della crisi, la poesia deve continuare a vivere. Ecco cos’hanno in comune i tre libri di poesia che ho qui davanti e ai quali accennavo nel mio precedente articolo. Essi non hanno in comune una scelta formale, non cercano audience presso i salotti buoni della poesia che parla parole mai sbagliate, che usa una lingua già fatta, ben collaudata, prontamente confezionata. Qui ci troviamo di fronte a tre poeti la cui scrittura è la risposta necessaria a una chiamata, alla crisi che chiama, che mette in discussione, che chiede una scelta, una posizione. 



Mauro Ferrari, con il suo Vedere al buio, afferma di procedere senza certezze e senza illusioni, in un mondo sfuggente e indecidibile, ma trova la forza di affermare la positività dell’istante: perché sappiamo/ che non c’è tempo insieme/ se non questo, né attesa/ in alcun luogo eccetto qui/ nell’incrociarsi degli sguardi,/ nel tocco delle mani/. Forse si arrende, vince la sua scettica visione delle cose, proprio accogliendo ciò che viene: E’ quasi l’alba e dormi, come Anna/ nell’altra stanza, che ci cresce dentro./ Fa giorno, e un mondo posa a terra/ il freddo notturno[…] alcuni, persino, tornano a casa. 

Nel suo recentissimo A quale ritmo, per quale regnante, anche Riccardo Olivieri sembra apparentemente celebrare una sconfitta, l’impossibilità di toccare un padre dentro il suo silenzio, per esempio. Ma questa consapevolezza è lentamente e gradualmente contrastata e contraddetta dalle parole che il poeta sceglie per proseguire nel suo viaggio tra le cose, soprattutto nel cambiamento dello sguardo che in lui opera il figlio: Amore mio,/ è per questo che sono vivo,/ per sentire le tue/ domande sull’Universo,/ su Dio/ che erano le mie e saranno/ di tuo figlio,/ per stare a (non) risponderti/ seduto a fondo letto, tu convalescente,/ Inquieto di domande e aperti occhi,/ come stamattina,/ tutti i limpidi tuoi anni/ verdelampanti mi dicevano/ che ha senso/ — contro ogni quarzo — ha senso/ questo mio viaggio. La consapevolezza di un’altra vita, di un bene che rimane bene e non si trasforma in un’arma che ci ferisce, affiora quando gli occhi si fermano su piccoli dettagli, respiri, luce e gesti buoni che non solo si ritagliano uno spazio nel ricordo, ma sono presenti e vivi, sono carne e fatica che hanno costruito una casa salda, uno spazio che si allarga e si conferma anche nel cuore dei giorni difficili, una condivisione che rimane: Noi sulle due sedie nere/ che t’aspettiamo/ — pensavo — siamo seduti qui/ dal primo momento.

E poi c’è Gianfranco Lauretano e il suo Rinascere da vecchi: anche qui quasi ci si arrende a constatare che la ferita delle cose fa ricominciare sempre: Sta in te quel senso, nell’esperienza/ del vederti, nell’estrema dolcezza/ delle tue dita, lo sguardo assorto/ e poi sorpreso dal messaggio/ del mio volto, dalle parole/ che ti attraggono e non permettono/ di spegnere il contatto. Quasi la poesia altro non fosse che questa registrazione dell’accadere della realtà, persino contro il proprio volere. Nella sezione Diario russo di questa raccolta, Lauretano scopre di nuovo che le cose conservano fortunatamente dentro di sé un altro luogo; in esse risiede un mistero, un segreto che non riusciremo a possedere fino in fondo e che, proprio per questo, riaccende ogni volta l’amore. Il diario di un viaggio concreto e reale diventa allora il resoconto di un amore che si rinnova proprio in virtù di un essere disposti a ricevere lo scacco da una realtà più grande, da un luogo o da una donna che non si lasciano afferrare, che non si possiedono mai. 

Di fronte a questa presenza noi sentiamo con sorpresa la verità della nostra persona, sentiamo di appartenere a una storia millenaria che si condensa in un attimo di grazia, percepiamo di fare parte di un flusso che ci tiene dentro un senso buono delle cose. Il desiderio di raccontare il paese che abitiamo viene così rovesciato: è quel paese che racconta noi, sono quelle case e quei campanili che parlano di noi, che raccolgono in una strada sola, in una piazza le nostre mille anime. E’ quel paese che dà finalmente un nome ai nostri passi incerti dentro un mistero che rimane tale, come voleva Mauro Ferrari, ma, per un attimo infinito e innamorato, è come illuminato e chiaro e ci muove ancora. 

Ecco allora cosa ci stanno a fare i poeti, o almeno certi poeti: la loro poesia è compagna del viaggio dentro il quale conquistiamo una nuova conoscenza di noi e del mondo; la loro poesia diviene uno strumento privilegiato per noi proprio perché costringe il nostro sguardo a passare per quei particolari attraverso i quali anche il significato del tutto può essere intuito, colto e custodito. E’ una poesia, quella di Olivieri, di Ferrari e Lauretano in cui c’è una piena corrispondenza tra ciò che il poeta intende e quello che la parola fa; c’è in queste pagine una dimostrazione chiara di ciò che la poesia può essere quando accetta di essere quel da dire al mondo proprio e soltanto perché il mondo c’è: poesia come sguardo e abbraccio, poesia come cura e offerta.