La “vita in quarta” (nota biografiche sul risvolto di copertina) informa che Elias Canetti nacque a Rustschuk, in Bulgaria. Scritto così, pare un nome primitivo, adatto a un luogo angusto, povero e arretrato. Invece si tratta del vecchio nome tedesco della città bulgara di Ruse (in cirillico Pyce), che giace sul Danubio, alla frontiera con la Romania. Ai tempi di Canetti, la città aveva anche il nome romeno di Rusciuc, e quello turco di Rusçuk e quello magiaro di Oroszcsík (si pronuncia “Oroscik”). Grafie diverse, suoni simili. L’unità nella varietà: lingue diverse, ma parlate in modo simile. La comprensione era facile: tutti sapevano un po’ di tutto e tutti convivevano tranquillamente. Era quello il mondo del piccolo Elias, che fece i primi passi in un ambiente tanto variegato e plurilingue di cui oggi si fatica a immaginare l’esistenza.
La prima lingua dell’infanzia era il “ladino”, quello “spagnolo antiquato” (ein altertümliches Spanisch) che costituiva la varietà ispano-romanza degli ebrei scacciati da los reyes católicos e ospitati nell’impero degli Ottomani. A Rustschuk i giudeo-spagnoli erano integrati in una comunità bulgara, in cui si udivano anche voci turche, romene, greche, albanesi, armene, zingare e ogni tanto russe. In casa Canetti, lavoravano come serve giovanissime contadine bulgare, che raccontavano fiabe di lupi mannari e vampiri. Anni dopo, Elias, che aveva lasciato Ruse all’età di sei anni, aveva dimenticato il bulgaro, ma non quei racconti terribili, che gli rifluivano alla memoria in tedesco, diventata, nel frattempo, la sua lingua principale.
Per lavoro, il padre di Elias si portò dietro la famiglia a Manchester, nel 1911. Ma un anno dopo, improvvisamente, il genitore morì, colpito da infarto, proprio mentre Elias era impegnato nei giochi d’infanzia. La madre glielo aveva rinfacciato: lui giocava, e suo padre moriva. La vicenda segnò profondamente Elias: non tanto per il riconosciuto intento della madre di istillare in lui un senso di colpa (e forse così esorcizzare la morte?): quanto per la riconosciuta assurdità della morte — un evento inaudito, inspiegabile, intollerabile. Canetti sceglie di combattere la morte scrivendo. La scrittura può annullare la morte. Chi scrive non muore, ma vive grazie a chi legge.
Da Manchester, nel 1913 la famiglia raggiunge Vienna, proprio agli inizi della Grande Guerra. Nella capitale austriaca, Elias arriva già capace di dominare pienamente il tedesco. Sua madre gliel’aveva fatta imparare a ritmi impossibili per un giovane di oggi. Quel bambino che a sei anni, a Manchester, aveva appreso l’inglese, ora, a Vienna, era in ambiente tedesco e sperimentava, per la prima volta, il collasso delle culture sotto il peso dell’odio. Gli toccò ricevere, per la prima volta, un epiteto, Judelach, “ebreaccio”, da qualcuno, per strada. “A me non era ancora capitato di essere insultato perché ebreo, in Bulgaria e in Inghilterra questo non usava”; così egli scrive nella Lingua salvata, il primo volume della sua autobiografia.
E poi l’odio contro i nemici in guerra. Appena giunti a Vienna, i fratellini di Elias (uno di tre e l’altro di cinque anni) parlavano ancora inglese; non sapevano il tedesco. Quando andavano a giocare al parco, erano chiamati “i bambini inglesi” (die kleinen englischen Buben). Lì fa una prima, brutta esperienza. Il 1° agosto del 1914 la famiglia era al parco, in una località vicina a Vienna. C’era tanta gente e c’era pure un’orchestrina impegnata in cose leggere. Ma a un certo punto il Dirigent impose il silenzio e annunciò che la Germania aveva dichiarato guerra alla Russia. Subito l’orchestrina suonò l’inno imperiale (il Serbidiola), e tutti i presenti a cantare in coro. Poi si passò all’inno prussiano (poi della Germania d’allora), che aveva la stessa melodia di quello inglese (la Prussia aveva ripreso il God save the King, ma con altre parole: “Salve a te, coronato di vittoria”, Heil’ du im Siegeskranz). Elias aveva nove anni e trascinò i fratelli, che ben conoscevano la melodia. Ma si sgolarono in inglese, non in tedesco. Risultato: la massa dei presenti si adirò e cominciò a picchiare “i bambini inglesi”. La madre, che parlava come una viennese, inveì contro la folla e riuscì a portarseli via.
A impressionare Elias furono soprattutto “«i visi stravolti dall’odio” (die hassverzerrten Gesichter). Non era la Vienna elegante, delicata, tutta walzer. Era la massa pronta a farsi manipolare dal potere. L’esperienza lo segnò e gli fece amare ancor più la lingua e la cultura inglesi. A scuola intanto si esercitava nelle canzoni patriottiche in tedesco. Da alcuni compagni di scuola riusciva anche a imparare “battute cariche di odio compresso”, che fan parte del repertorio universale di slogan lanciati contro i nemici (non per nulla slogan viene dal gaelico scozzese sluagh-ghairm “grido di battaglia”). I giochi di parole non si possono rendere in italiano: Serbien muss sterbien “la Serbia deve morire” dove “morire” (sterben) è deformato per riecheggiare Serbien. E poi altre amenità: Jeder Schuss ein Russ “ogni sparo un russo”, Jeder Stoß ein Franzos “ogni colpo un francese”, Jeder Tritt ein Britt “ogni pedata un inglese”. Elias smise di cantarli dopo che la madre gli ricordò Ol’ga, una donna russa di grande bontà, che in Bulgaria era per lei la migliore amica (e quando si trovavano, parlavano tra loro “in un francese fitto fitto”). Canetti bambino si era così sottratto alla manipolazione ideologica che sostituisce la realtà con gli stereotipi.
Elias imparò a comprendere i popoli e le culture partendo dalle persone che aveva conosciuto. La Romania gli suscitava una “tenerezza particolare perché mi avevano tanto parlato della balia rumena che mi aveva nutrito col suo latte”. Ma quando di ritorno a Vienna da un viaggio in Bulgaria, durante la guerra, erano giunti alle frontiere romene, madre e figli furono maltrattati dai doganieri. E la madre aveva attribuito tale condotta al passaporto turco con il quale viaggiavano allora. Per fedeltà alla Turchia, che sempre li aveva rispettati, la maggior parte degli “spanjoli” aveva infatti mantenuto la cittadinanza ottomana. Certo, se la madre avesse conservato nei documenti il cognome italiano Arditti della famiglia d’origine (che veniva da Livorno), forse le cose sarebbero andate meglio, dato che i romeni avevano simpatia per i popoli latini, sopra a tutti i francesi…
Questi e altri frammenti di ricordi riportano in vita ambienti e comunità plurilingui capaci di accogliere, condividere e rielaborare culture ed esperienze diverse. Sono episodi che rievocano una storia caratterizzata da tolleranza e benevolenza. Un’Europa sconosciuta ai più, scomparsa nei flutti del sangue sparso da ideologie di sterminio. Tanta morte ovunque, eppure lo scrittore è ancora vivo perché ha il compito di testimoniare che la morte esiste finché la si lascia vincere e si acconsente a descriverla come essa pretende si faccia. Invece, bisogna trattarla male, ignorarla, disprezzarla. Canetti può farlo perché della morte non ha paura; egli, anzi, trova che sia superflua.
Ora, a tre anni dalla pubblicazione in Germania (presso Hanser) del Buch gegen den Tod (il “libro contro la morte”), esce da Adelphi la traduzione italiana di quest’opera postuma, in cui sono raccolte, in ordine cronologico, pagine e pagine sparse di annotazioni, aforismi, riflessioni sulla morte. Scriveva Michael Maar sulla Zeit del 7 luglio 2014 che la morte è stata il Lebensthema di Canetti, il tema che ha accompagnato Canetti per tutta la vita. E a vent’anni dalla sua morte anagrafica, egli è vivo come l’argento vivo, negli scritti suoi che continuano a essere letti nel mondo.