La biografia del cardinale Caffarra parla da sola: stimato da Giovanni Paolo II che lo volle a Bologna nella difficile successione al cardinale Biffi, in profonda sintonia con Benedetto XVI che nel 2006 gli diede la Porpora, familiare a Francesco che — caso più unico che raro in questo pontificato — gli chiese di andare avanti alla guida della diocesi sotto le due Torri oltre la canonica età dei settantacinque anni. 



La parola che forse descrive meglio questo itinerario dentro la Chiesa di un uomo appassionato e intelligente è forse “dedizione”, una dedizione incondizionata e struggente alla Chiesa e al suo magistero, in particolare quello sui temi etici e sulla famiglia. Sempre ironico Caffarra, anche nei tornanti più difficili e tormentati, sempre lieto e mai carico di quella rabbia e di quel livore che tanti in queste ore stanno riversando sulla cattedra di Pietro, verso quel Papa che avrebbe umiliato il cardinale evitando di dare risposta ai famosi “dubia” sollevati da Caffarra e da altri tre membri del Sacro Collegio a proposito dell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris Laetitia



La vicenda è certamente più complessa di come la si va raccontando: un’esortazione ha lo scopo di aprire un cantiere di lavoro, non è un’enciclica né un pronunciamento dogmatico, bensì un documento del magistero cui va l’ossequio della volontà e dell’intelletto, comunque un documento di partenza, che ha il compito di indicare percorsi e orientamenti che solo alla prova della storia si possono realmente verificare. Eppure Caffarra prese posizione, lucidamente e cordialmente. Oggi ignorarlo sarebbe ipocrita e ingiusto. A chi sta usando del corpo caldo del cardinale per ribadire le proprie accuse, a chi squalifica l’arcivescovo emerito di Bologna relegandolo al ruolo di capocordata di una manipolo di conservatori continentali, va ricordato che questo non è lo schema in cui scelse di giocare il cardinale. 

La consapevolezza del tempo presente, di quella battaglia finale che si sarebbe “giocata sulla famiglia”, divenne per lui una vocazione nella vocazione, un impegno di responsabilità ineludibile. Una delle menti più nitide del panorama teologico italiano di inizio secolo restò interdetto verso quella che egli stesso non esitò a definire “confusione” e incertezza in seno alla Chiesa. Se si tacesse tutto questo, quello su Caffarra diventerebbe non un ricordo, bensì un grottesco epitaffio. Nessuno può sapere con certezza che cosa è accaduto in questi anni nel cuore del cardinale, nessuno conosce tutti i passaggi di una questione delicata e non di immediata comprensione: tutti però possono vedere che cosa egli scelse alla fine di quella strada, di quei mesi, di quelle lettere pubblicate non senza tremore. Egli scelse sempre la fedeltà a Pietro. 

Non possono poche righe decidere che cosa ci fu di giusto o di sbagliato in quella vicenda, ma si può rendere omaggio ad un uomo che non ha mai anteposto nulla alla sequela della Chiesa cum Petro e sub Petro, un uomo privo di quel senso di irritazione profonda per un pontefice che, come un gusto di gelato, non piace e non convince molti. Caffarra non ha mai trattato la Chiesa come una gelateria e non è mai venuto meno al giudizio di fondo, ossia che Francesco fosse il papa e che da “papista” (parole sue) egli intendeva morire. 

Quello che a chi osserva queste cose risulta difficile è come si possa essere diversi nell’Unità, come si possano avere quattro vangeli per un unico Vangelo, come si possano avere tre persone e una sola sostanza: è il mistero della trinità, del Dio Uno e Trino, che oggi è gravemente negato come principio di comprensione di qualunque distanza, affettiva o ideale, tra le idee dei singoli e la strada indicata dalla Chiesa. Caffarra non si è mai ostinato ad aver ragione, non ha mai usato il suo carisma contro il Papa, né ha coagulato attorno a sé un movimento di dissenso. Egli ritenne di seguire il Vangelo al seguito del successore di Pietro, senza rendere la sua fede “pietra d’inciampo” per il proprio cammino. 

Oggi che lo ricordiamo in Cielo, tra i tanti che vegliano su di noi, abbiamo ancora di più la responsabilità di ricordarci che la Chiesa non è un monolite inossidabile, ma che — proprio come Dio — vive nell’Unità e nella pluralità. Il gusto di questa pluralità è ciò che ci manca di più e che ci rende gli uni verso gli altri violenti. Quasi che, se si negasse ciò che per noi è giusto, verrebbero meno in noi stessi le ragioni per vivere e appartenere al grande popolo di Dio. Caffarra non ha mai offerto il fianco alla zizzania, né è stato mai ricattato dal successo dei suoi interrogativi: egli ha semplicemente vissuto davvero, con le sue miserie e le sue nobiltà, la vita della Chiesa. E di questo non gliene saremo mai grati abbastanza. Buon viaggio, Eminenza.