Caro direttore,
capire Francesco e la sua pastorale urbe et orbi — che non sono solo la città cristiana, Roma, e la civitas cristiana, il mondo occidentale — è capire l’uomo e la sua situazione nel mondo di oggi, ingorgata in conflitti d’interessi terreni e talvolta indicibili che troppo spesso si ammantano dell’alibi del confronto di civiltà o del conflitto religioso. Troppi sono gli uomini che hanno dato se stessi agli dèi fin troppo terreni dei propri egoismi, rivestiti del mantello demonico della fede “vera” nei propri dèi trascendenti, della falsa profezia che non cambia niente del cuore impastato di terra, “mondano”, dell’uomo, mentre ha sulla bocca la parola Dio. In un mondo in cui — tra spaventose concentrazioni di ricchezza e spaventosi abissi che sono mari, mai stati così larghi, di povertà, e una terza guerra mondiale combattuta a pezzi e bocconi sempre più diffusi — avanza il mysterium iniquitatis. Avanza fondamentalmente il “primato” del male, dell’ingiustizia, della massima ingiustizia contro la vita, che oggi non riguarda solo più uomini singoli o in gran numero e popoli, ma l’uomo stesso, la sua presenza sulla terra che non sa “abitare”, in cui non sa più stare al mondo. Uno stare al mondo la cui prima condizione è tenerlo aperto, il mondo, vivibile — dall’ambiente alla società — per sé e per gli altri. 



In questo mondo che non sappiamo più abitare e che nondimeno è il nostro, l’unico che abbiamo e che possiamo avere, capire la pastorale universale di Francesco è capire il repentaglio a cui egli vede esposto l’uomo. Nell’ultimo scorcio del 2017 ne ha dato un saggio denso di significato nella questione dei Rohingya, perché dopo averli abbracciati sulla loro terra dove sono calpestati, ha poi ripetuto sotto Natale che Gesù Cristo oggi ha il nome dei Rohingya. Disturbando non poco un Occidente che si sente minacciato dall’islam e magari anche settori della sua stessa Chiesa, che lo vorrebbero magari impegnato più, o solo, a denunciare la persecuzione non meno feroce di tanti cristiani nel mondo; lo vorrebbero insomma più patrono delle ingiustizie tante e gravi subite dalla sua “parte”, che delle ingiustizie subite da tutti, tra i quale ci sono anche i propri “nemici”. 



Sarebbe facile dire, in termini di teologia spicciola, che Francesco continua il magistero del suo Maestro, che aveva integrato l’insegnamento tradizionale dell’amore del prossimo con l’amore verso i propri “nemici”; e predicato tra pubblicani, anche con una certa passione, più che tra uomini dabbene della Sinagoga. Ma il punto non è questo. Testimoniando Cristo, Francesco è profeta interreligioso, dell’unica profezia all’altezza dei tempi della globalizzazione come incontro da sperare e scontro da evitare dei conflitti di civiltà, di culture, di religioni; e per togliere almeno l’alibi religioso al mistero del male, dell’uomo contro l’uomo. 



Francesco sta dicendo da tempo una cosa semplice e grandissima:  che gli uomini per credere in Dio — e anche per essere lasciati a non credere, per restare una possibilità per Lui — devono essere “vivi”. Semplicemente vivi. Il resto — i paramenti religiosi o ideologici con cui si onora la vita che ci è data, la vita che non è “nostra”, forse di Dio, ma quanto meno di tutti, anche di quelli che vengono dopo, e forse soprattutto di quelli — viene dopo. Francesco sta profetizzando al mondo, prima ancora che la teologia cristiana, l’antropologia cristiana, Cristo come uomo: Dio è la vita, la fede nella vita comunque sia creduta; la fede nell’uomo, il primato, la coessenzialità, del secondo comandamento “amerai il prossimo tuo come te stesso” al primo comandamento: “c’è scritto amerai il Signore Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. E il secondo non è secondo di rango, ma secondo come conseguenza che ne viene — secondo il significato — dell’amore portato a Dio, Signore delle vita; perché altrimenti non si capirebbe l’explicatio che è tutto della riposta di Gesù alla domanda sul “primo” dei comandamenti: “Non c’è altro comandamento più importante di questo” (Marco, 12,29-31). 

Insomma la profezia di Francesco è la ripresa della profezia di Gesù: nella comune croce della vita, che già basta a se stessa, proprio perché possa essere la benedizione che è per tutti, e, per chi crede, che Dio ha voluto per tutti, non ci sono “nemici”. Tanto più oggi, in un mondo la cui comunanza di destino sulla terra non consente nemmeno più di poter avere un “nemico”, un nemico “mortale”, perché nella sua morte ci sono i germi della mia morte. Che questa profezia sia stata da Francesco rilanciata nei giorni del Natale dei cristiani è un motivo in più per porgervi un orecchio non distratto dal cinismo di tutti i giorni. Perché è quanto di più “politicamente” rilevante si può ascoltare oggi.