Più o meno all’inizio dell’anno Mark Zuckerberg fa il punto della situazione, pensando in grande, non solo a Facebook, come è tipico di questi pionieri delle nuove tecnologie e, quindi, volenti o nolenti, del futuro. Si tratta, tutto sommato, di interventi politici, non certamente nel senso tradizionale del termine, ma essendo rivolti ad un “popolo” numeroso (circa 2 miliardi di iscritti), per quanto virtuale, hanno potenti mezzi per farsi sentire.
Nel febbraio 2017, il fondatore di Facebook si interrogava sul nostro futuro (“are we building the world we all want?“) e tra i temi affrontati ne compariva uno, a mio parere, cruciale: come costruire una comunità ben informata (“informed community“)? La risposta di Zuckerberg si focalizzava sul controllo degli estremismi, grazie all’uso dell’intelligenza artificiale: evitare potenziali emozioni fuori scala che, appunto, possono portare alla diffusione di comportamenti anti-sociali. Anche i risvolti politici sono interessanti: la partecipazione diretta alla formazione della cosa pubblica comprime inevitabilmente i tempi parlamentari, gettando dubbi sull’utilità di corpi intermedi tra il cittadino e il potere legislativo, che formano il campo tradizionale dei partiti e della politica.
Quest’anno, Zuckerberg sembra cambiare registro, ponendosi un problema molto più concreto, ossia la preoccupazione che il tempo trascorso su Facebook sia tempo ben speso; per questo nella sezione notizie (“News Feed“), i contenuti condivisi da amici e familiari saranno privilegiati rispetto ai post delle pagine, in modo da rendere più personale l’esperienza di ciascuno dei suoi followers. Diminuiranno, quindi, video e meme, per lasciare il posto a contenuti più personali, condivisi con i propri amici, in modo da favorire relazioni più significative, riducendo i contenuti passivi, quali ad esempio la lettura di articoli o la visione di video, di fronte ai quali il soggetto è semplice lettore o spettatore. L’intento di Zuckerberg è di fare in modo che il servizio offerto non sia soltanto divertente, ma qualcosa che serva al benessere della gente (“we feel a responsibility to make sure our services aren’t just fun to use, but also good for people’s well-being“). Tutto ciò è supportato da ricerche svolte nel corso del 2017, da cui emerge che le persone più interattive sui social si sentono meglio dopo il tempo trascorso on line rispetto ai semplici osservatori di contenuti altrui. Così facendo, il tempo trascorso dagli utenti su Facebook potrà ridursi, circostanza che, peraltro, preoccupa editoria e pubblicità, ma Zuckerberg si aspetta che sia ben speso (“we can help make sure that Facebook is stime well spent“).
Vederci soltanto l’esito delle varie critiche mosse per le “fake news“, strumentalizzate durante le campagne elettorali, come l’elezione di Donald Trump e la polemica sulle ingerenze russe, mi sembra riduttivo.
Innanzitutto, a mio parere, c’è una forte continuità con il post dell’anno scorso, data dall’obiettivo stesso di Facebook, cioè quello di avvicinarsi sempre di più ad una comunità globale: “Quando abbiamo iniziato — scriveva l’anno scorso — questa idea [di creare una comunità globale] non era controversa. Ogni anno, il mondo era sempre più connesso, il che è stato visto come una tendenza positiva. Ma ora, in tutto il mondo ci sono persone indietro a causa della globalizzazione, movimenti per uscire dalla connessione globale. Ci sono dubbi sul fatto che possiamo creare una comunità globale che funzioni per tutti e se il nostro percorso futuro sia quello di collegare di più o di invertire la rotta […] Essendo una comunità globale di persone abbiamo bisogno di standard della Comunità che riflettano i nostri valori e aiutino a determinare ciò che dovrebbe e non dovrebbe essere permesso”. E “gli standard della Comunità dovrebbero riflettere le norme culturali della nostra comunità. In caso di dubbio, preferiamo sempre dare alle persone la possibilità di condividere di più”.
Impressiona che l’idea stessa di verità, non astratta, ma come elementare senso critico della persona, non venga nemmeno menzionata in entrambi i post di Zuckerberg, eppure essa dovrebbe rappresentare la prima capacità cui fare appello per distinguere, ad esempio, una “bufala” dalla realtà, o per non cadere nella violenza che scatenano sempre più spesso contenuti diffusi sui social media. Senza di essa, in fondo, basta variare un algoritmo per indurre reazioni a comando; più o meno positive, in funzione dei risultati che si vogliono ottenere. E se l’esito della comunità globale fosse alla fine una gabbia di pochi metri quadri?