Wanda Póltawska è conosciuta come l’amica più cara di Karol Wojtyla. La sola donna ad avere libero accesso agli appartamenti pontifici di cui — caso unico — possedeva le chiavi dell’ascensore privato. Col giovane sacerdote Wojtyla si erano conosciuti finita la guerra, dopo l’esperienza del seminario clandestino di lui e della reclusione nel campo di concentramento a Ravensbrück di lei. Un legame tenace e proficuo che fu interrotto solo dalla morte dell’uomo “venuto da lontano”, eletto Papa nel frattempo: un amore durato 55 anni di cui Wanda ha dato testimonianza nel libro Diario di un’amicizia (2010) che raccoglie alcune parti del suo diario spirituale.



Di Ravensbrück Wanda non parlava mai, vuoi per non risvegliarne i fantasmi, vuoi perché — esperienza comune a molti sopravvissuti — nessuna parola sembrava adatta per raccontare quell’orrore indicibile a cui nessuno, che non ne fosse stato testimone, avrebbe potuto credere. Ma Wanda con le parole ci sapeva fare e quando da incredula sopravvissuta mise mano alla penna per avere sollievo dagli incubi ricorrenti ne uscì il libro E ho paura dei miei sogni. Una donna nel lager di Ravensbrück (San Paolo 2010). Un lavoro che unisce l’inestimabile valore della testimonianza storica con la pregevolezza di un’opera letteraria. Un libro che certo non sfigura a fianco di capolavori come Se questo è un uomo di Primo Levi e Una giornata di Ivan Denisovic di Aleksandr Solzenicyn.



Arrivata innumerevoli volte a un soffio dalla morte e sottoposta con le altre amiche polacche a crudelissimi esperimenti medici, Wanda aveva maturato la vocazione di diventare medico proprio nel famigerato campo di Ravensbrück. Era un giorno di maggio del 1945 quando i soldati russi entrati nell’infermeria del campo la scambiarono per un cadavere. “Un giorno venne un uomo, tagliò con delle grosse cesoie i fili di ferro che circondavano quel piccolo campo e gridò: ‘Ragazze siete libere!’. Ma un altro gli disse: ‘cosa strilli, stupido! È l’obitorio!’. Io invece ero viva e pensavo. Mentre stavo distesa al fianco del cadavere freddo della piccola zingara decisi di studiare medicina. Può sembrare paradossale: nel momento in cui morivo di fame e la morte era questione di giorni, o forse di ore, io programmavo la mia vita”.



Il talento di Wanda per le lettere era noto, solo pochi anni prima aveva dovuto resistere alle lusinghe del suo anziano professore di latino: il signor Jan B. che fu la prima persona incontrata il 28 maggio 1945 al ritorno a Lublino, la sua città natale, dove era sta arrestata il 17 febbraio 1941, all’età di 21 anni. “Un uomo anziano con le spalle un po’ incurvate camminava sulla via. Una fisionomia conosciuta. Chi era? Gli corsi incontro. Era proprio lui, il nostro professore di latino… Mi guardò con i suoi occhi azzurro chiaro, proprio con lo stesso sguardo del giugno del 1939, quando cercava goffamente di ballare durante una festa della scuola. Allora mi chiese: ‘signorina studierà filologia classica?’. E io gli avevo risposto ridendo: ‘No professore, non studierò filologia classica’. (…). Tornai improvvisamente quella ragazza in divisa e dissi ridendo come allora: ‘No professore, non studierò filologia classica’. Scosse la testa allo stesso modo e disse come allora: ‘Signorina, lei spreca il suo talento’. Lo baciai sulla guancia e corsi via…”. Quattro anni di inferno cancellati, per un attimo, da un sorriso paterno, una scialuppa di salvataggio in un oceano d’angoscia. 

Tormentata dagli incubi Wanda non riusciva a dormire. Il lager tornava a ghermirla anche nel letto di casa, nei sogni dolorosi come lo erano stati quelli al tempo del lager, dove tanto più erano belli tanto più crudele sarebbe stato il risveglio. Il suggerimento di scrivere per alleviare il dolore le venne da un’antica insegnante, così nel luglio del 1945 Wanda compose l’incredibile affresco delle bolge infernali di Ravensbrück. Tuttavia il manoscritto rimase nel cassetto fino al 1961 — il ventesimo anniversario del suo arresto — perché l’autrice non aveva messo nel conto che il suo pionieristico lavoro di scrittura terapeutica andasse alle stampe. 

Alla prima edizione in lingua polacca ne seguirono altre in diverse lingue: inglese, francese, giapponese. La più sofferta fu quella in lingua tedesca. Una lingua che Wanda già conosceva da giovane e che rimase indelebilmente legata all’oscena esperienza del lager: le bastava ascoltare poche frasi perché nella sua mente ripartisse la macabra girandola delle esecuzioni, delle sevizie e delle torture. La prima edizione in italiano dovette attendere il 1998 grazie all’iniziativa della casa editrice Sic, ripresa successivamente dalle Edizioni dell’orso (2007) e dalla San Paolo (2010). Ancora oggi il libro di Wanda Póltawska è meno conosciuto di quanto meriterebbe, come anche la storia del campo di concentramento femminile di Ravensbrück, dove morirono almeno 30mila donne (ma molto probabilmente 90mila) è poco conosciuta. Una lacuna degli studi storici colmata dal recente lavoro di Sarah Helm If this is a Woman (Il cielo sopra l’inferno, 2015), dovuta alla scarsa documentazione disponibile perché i nazisti ebbero il tempo di distruggerne gran parte. Un dato, quest’ultimo, che rende l’opera della Póltawska ancora più preziosa.

E ho paura dei miei sogni è un libro vitale che sorprende per l’ironia, la grazia e il distacco artistico con cui l’autrice racconta anche le situazioni più cruente e disumane. L’8 maggio 1945 i nazisti abbandonarono il campo e con l’Armata rossa arrivò la libertà. Ma a salvare Wanda dalla morte per stenti non furono i soldati russi, né quelli americani, ma la fiducia nel suo (pensiero) inconscio e il coraggio di ascoltarlo: “sonnecchiando nell’attesa dell’inevitabile avevo fatto un sogno ridicolo: sognavo latte e semolino, un piatto pieno, che io non potevo mangiare perché era al di là di un vetro”. Nei locali abbandonati “cercavo il semolino senza neanche guardare i barattoli di carne e di conserve…”. “Volevo soltanto il semolino, con un’ostinazione fanatica allora incomprensibile. Oggi credo di sapere con certezza che fu proprio quel sogno a salvarci la vita”. Molte compagne morino di indigestione per aver abusato del cibo a lungo agognato. Per mangiare un piatto di semolino Wanda impiegò una sera e tutto il giorno seguente. Per mangiare il secondo piatto fu necessario ancora un giorno intero, ma al terzo giorno “dopo il terzo piatto di semolino, ci tornò la voglia di vivere”.

Mi sono spesso domandato se sarebbe bastato l’inconscio per salvarsi in un lager. Forse no, però dopo la testimonianza di Wanda mi è ancora più difficile pensare che non sia stato un aiuto.