L’11 febbraio terminerà a Palazzo Barberini di Roma la mostra dedicata al pittore milanese Giuseppe Arcimboldo (1526-1593). Date alla mano, il talentuoso artista lombardo vive la fase matura di un periodo di eccezionale vitalità e di non ripetuto e non ripetibile smalto. La maggior gloria la raggiunge, anzi, quando il XVI secolo volge al termine, insieme alle speranze, alle ideologie e agli stili che aveva ereditato dal precedente. L’ordine erudito della civitas umanistica e rinascimentale ne esce quasi ibernato: ai contemporanei non difetta la competenza tecnica e non si sono del tutto eclissati i gruppi di potere che avevano fatto del neo-mecenatismo prosperità e servitù dell’artista. Gli esordi dell’Arcimboldo sono, in fondo, nel segno già tracciato: lavora per l’edilizia di culto (a Monza e a Milano), si impegna in committenze private, ottiene patrocini illustri e alterna opere di devota filologia pittorica a prime, coraggiose, sperimentazioni che ne delineano l’originale cifra stilistica. 



È abbastanza comprensibile, perciò, che l’Arcimboldo passi alla storia per qualcos’altro: qualcosa che valga definitivamente a distinguerlo dalla sua generazione. Ed ecco l’intuizione delle “teste composte”, raffigurazioni che giocano a creare forme antropiche mescolando oggettistica di ogni tipo (dai libri alle vettovaglie, dai fogliami agli utensili). In effetti, ci sarebbe di che urlare al sacrilegio: il XVI secolo inizia ancora col culto della figura, col retaggio vitruviano di Leonardo e con le rappresentazioni neoclassiche, neoplatoniche, ireniche, idilliache. 



L’ossuto genio milanese si mette a fare il guitto beffardo, con quella sensibilità e quella vivacità che non lo rendono però alieno dal potere o estraneo a certe sue smodatezze mondane: Giuseppe Arcimboldo arreda e inscena feste e magari vi partecipa, fa mascherate e giochi. Probabilmente intuisce che il sogno universalista di due secoli di civiltà sta eclissandosi, schiacciato poi definitivamente dalle crisi politiche e dalle policromie e polifonie artistiche del Seicento. Eppure, è ancora parte di quel sogno universalista e antropocentrico: è proprio nell’atto di seppellirlo definitivamente che ammette di averne fatto parte. Se va forgiandosi, sul piano delle istituzioni politiche, un’idea marcatamente territoriale e accentrata della sovranità, Giuseppe Arcimboldo è anche il talento che ne irride la precoce senescenza e la pretesa razionalistica che spesso scade nella forza, nella guerra, nel rito del potere. Le consuetudini di ancien régime non sono per forza peggio delle corone di nuovo conio che seguiranno di lì a breve. 



Splendide le composizioni dell’Arcimboldo, allora, che dall’oggettistica quotidiana traggono un racconto non privo di una sua epicità, per quanto brulicante e contraddittorio, come riconosciuto da Barthes, e perciò già distante dal canone epico codificato della cultura rinascimentale. 

“Il fuoco” del 1566 è una catasta per cannoncini, mortai e candele; “Inverno” è tronco morto che regge con una smorfia al gelo e alle piogge, “autunno” è il maturo signore che invecchia nella botte del suo vino. Rodolfo d’Asburgo, pluridecennale guida del Sacro Romano Impero, si trova effigiato come Dio italico e pagano. Il lato mostruoso della tela provoca lo spettatore: quell’indecifrabile mostruosità, raffigurata in forme di essere umano, è specchio rovesciato dell’anima.