La Rai ha mandato in onda in occasione della Giornata della Memoria il film Il labirinto del silenzio, di Giulio Ricciarelli. Il film è ambientato a Francoforte nel 1958, nella Germania Ovest, in un momento in cui i tedeschi si stavano riprendendo sul piano economico col piano Marshall e sul piano politico grazie alle politiche di Adenauer. Stalin era morto nel 1953 e Kruscev stava lanciando la “coesistenza pacifica” che avrebbe portato alla costruzione del muro di Berlino (1961).  



Il labirinto del silenzio E’ un gran bel film perché attraverso la vicenda del giovane procuratore Johann Radmann il regista ha voluto impersonare il dramma di un’intera generazione di giovani tedeschi che hanno dovuto, loro malgrado, fare i conti con i crimini commessi dai propri padri. Passato da giovane magistrato, addetto alle infrazioni del codice stradale, a procuratore per le indagini sui responsabili nei lager nazisti, Johann si trova davanti ad un muro di silenzio, omertà e connivenze di istituzioni, mass media, politici e militari. L’establishment politico postbellico infatti aveva fatto calare una coltre di silenzio sulle responsabilità del popolo tedesco, peraltro già umiliato dalla divisione della Germania (BRD e DDR) e di Berlino. La Germania era alle prese con la ricostruzione economica e soprattutto materiale del paese. Così, benché gli americani conservassero negli archivi delle SS e della Gestapo i nomi degli insospettabili quanto volenterosi carnefici di Hitler, tuttavia né alleati né tedeschi osavano discutere o avviare un’autocritica su quel periodo, soprattutto non si aveva alcuna voglia di accertare le mostruosità commesse ai danni di ebrei e no; tanto meno si volle alzare il velo sulla repressione degli stessi dissidenti tedeschi torturati, decapitati (come i giovani della Rosa Bianca) o deportati su larga scala. 



Dopo i processi di Norimberga e di Dachau in cui vennero impiccati i gerarchi nazisti, rimaneva dunque la necessità di indagare in maniera capillare su vittime e carnefici. Fu soprattutto la procura di Francoforte nella persona di Fritz Bauer, procuratore generale, interpretato da Gert Voss, che si assunse il compito di squarciare il velo del silenzio. Nelle scuole e nelle famiglie tedesche si visse quindi il dramma di dover raccontare (o nascondere) ai giovani ciò che era accaduto agli ebrei con la “soluzione finale” attraverso il sistema dei KL (Konzentrationslager). 

Un “problema” di silenzio è esistito anche per le famiglie ebree alle prese con il dover spiegare (o tacere) ai propri figli l’antisemitismo e soprattutto il come poter spiegare lo sterminio. Lo scrittore israeliano David Grossman nel libro Vedi alla voce: amore (1986) ricorda come l’Olocausto fosse così penetrato nella sua psiche che a sera, prima di mettersi a letto con moglie e figli, al semplice gesto che tutti noi facciamo di chiudere il gas, gli venivano in mente le camere a gas. 



Ma la vera ossessione era educativa: primo, è giusto far nascere figli in un mondo in cui l’uomo è capace di cose terribili? E poi: come spiegare il tentativo di sterminio del popolo ebreo? “Se ci fosse nato un bambino la prima cosa che avrei fatto ogni mattina sarebbe stata di andare a dargli uno schiaffo. Così. Che sapesse che nel mondo non c’è giustizia…“, giusto per prepararlo ad affrontare il mondo, gli altri-da-sé!

Insomma come molti tedeschi tentarono di censurare la vergogna dei lager e le nefandezze del regime di Hitler, così anche molti ebrei preferirono far calare il silenzio su ciò che era stato. Al riguardo esemplare è il libro di Elisa Springer Il silenzio dei vivi. Quando il male è così grande c’è il rischio di esserne fagocitati, a meno che non si abbia una grande fede, come è successo alla Springer, oppure uno spiccato senso religioso come accade a Johann, protagonista de Il labirinto del silenzio

Ed è appunto la cosa interessante di questo film, che — a distanza di oltre 70 anni dai fatti — getta una luce inedita su quel silenzio. Bisogna considerare quella tragedia al di fuori dei soliti schemi di tante narrazioni e testimonianze. Il giovane Johann Radmann (l’attore Alexander Fehling), viene messo dal procuratore Bauer a capo delle indagini perché fin da quando era addetto alle infrazioni del codice stradale si era dimostrato ligio al rispetto della legge e perché conoscendone la determinazione, immaginava che nulla e nessuno lo avrebbe fermato nel suo compito. In un primo momento Johann non riuscirà a incriminare il professor Schulz, un autentico carnefice che continuava a insegnare in una scuola elementare; vedrà poi sparire nel nulla un fornaio/assassino, e ancora perderà le tracce perfino del famigerato dott. Mengele. Infine nella procura molti colleghi gli remano contro, come lo stesso pubblico ministero capo, Walther Friedberg: “Vuoi che ogni singolo giovane tedesco debba chiedersi se suo padre fosse un assassino oppure no?“.

Johann a poco a poco apre gli occhi sulla realtà fino a rendersi conto che i tedeschi, tutti quelli che conosce, sono stati in qualche modo conniventi con i crimini nazisti: il padre della sua stessa fidanzata Marlene (l’attrice Friederike Becht), un alcolizzato che beve per non dover fare i conti con la propria coscienza; lo stesso amico giornalista Thomas Gnielka (l’attore André Szymanski), che ad Auschwitz non ha mosso un dito a difesa dei deportati; sua madre, che si prepara a sposare un ex camerata… ma ciò che gli spezza ogni volontà sarà la scoperta che il suo stesso padre è stato un nazista. Seguono le dimissioni dall’inchiesta, la disperazione e la rottura dei rapporti con tutti. 

Ma proprio quando il male ai suoi occhi va assumendo proporzioni colossali perché vi vede coinvolto l’intero popolo tedesco, nel momento in cui lui stesso potrebbe perdersi — da qui il titolo del film —, accade qualcosa: il cercare intensamente, il voler uscire dal labirinto, il desiderio di trovare una via, un senso, malgrado l’assurdo, tutto ciò fa breccia nel mistero del cuore e della libertà di Johann. Ciò che lo fa rientrare nella realtà è un ragionamento semplice ed elementare: “L’unica risposta ad Auschwitz è fare la cosa giusta”, cioè riprendere la decisione del processo. E’ solo l’esigenza insopprimibile della giustizia, irriducibile al processo penale o allo stesso diritto, che fa scattare e mettere in moto la libertà e la coscienza del giovane procuratore: l’elementare senso della giustizia è una dimensione talmente costitutiva dell’io che è capace di rimetterlo in moto e di liberarne le energie più riposte, a fronte della realtà anche più contraddittoria. Che cosa chiedevano le vittime e in particolare le due gemelle dell’amico pittore Johannes Krisch (l’attore Simon Kirsch)? Avere un giusto processo, ed è questo che chiede anche il cuore di Johann. Così il giovane Radmann supera lo scandalo di un intero popolo che ai suoi occhi aveva ceduto, ancor prima che alla degenerazione ideologica, a quella morale. “Non si tratta di capire chi è colpevole o innocente“, la posta in gioco è più alta: soltanto se si sanno fare i conti con la propria storia a partire da un senso profondo della giustizia, si troveranno anche le forze per una pacificazione e forse anche per un tacito perdono.