La vittoria difensiva del dicembre 1917 non era stata conseguita senza sacrifici e senza consistenti perdite di posizioni. Si resero necessarie azioni locali mirate e ristrette, condotte in modo oculato e con risparmio di perdite. Fu quello che accadde sull’altopiano di Asiago, dove una controffensiva permise di migliorare le posizioni e di riprendere fiducia. Le battaglie di gennaio sono poco conosciute, ma videro protagonisti i bersaglieri della IV brigata e la leggendaria brigata Sassari. Per il valore dimostrato dai dimonios, il generale Pecori Giraldi li fece portare coi camion fino alle porte di Vicenza dove i sardi entrarono domenica 3 febbraio accolti da una folla festante. La Sassari aveva già dato prova di sé nelle battaglie sul Monte Piana, dimostrando come ci fosse del vero nella diceria secondo cui l’idea di una brigata sarda era nata dopo una gigantesca rissa a Genova nel 1914, dove un gruppo di isolani aveva mandato al tappeto un intero reggimento di continentali.
Ma il coraggio non poteva certo bastare e fu senz’altro gran merito del generale Alfredo Dallolio, ministro delle Armi e Munizioni, se il parco artiglierie fu ricostituito in brevissimo tempo e questo non sarebbe avvenuto senza l’apporto logistico degli Alleati. Nel giugno del 1918 gli austriaci tentarono nuovamente un’offensiva dall’Adamello al Piave. Dovunque furono respinti con perdite sanguinose e solo sul Montello, l’altura che sorge sulla riva destra del Piave, vi furono momenti di crisi. Nel frattempo, in Francia, le stosstruppen tedesche che erano state così efficaci a Caporetto infliggevano una durissima punizione anche a inglesi e francesi giungendo per la seconda volta sulle rive della Marna. Le divisioni americane furono portate in linea e si batterono, da subito, con energia straordinaria. I tedeschi furono fermati e in agosto le controffensive alleate cominciarono a creare una crisi irreversibile nell’esercito tedesco, falciato anche dall’influenza spagnola. Nel 1918 i quattro cavalieri dell’Apocalisse erano scatenati sul mondo ma l’influenza fu senz’altro il flagello peggiore, abbinato a uno stato di grave denutrizione dei popoli degli imperi centrali, determinato dal blocco navale britannico. E’ stato infatti calcolato che la pandemia abbia colpito un miliardo di individui uccidendone 50 milioni. Fu questo a mettere definitivamente in ginocchio gli imperi centrali, mentre la Bulgaria si arrendeva a fine settembre mettendo in crisi la Turchia e lasciando scoperti i Balcani. L’Austria-Ungheria era ormai senza difese.
Il generale Diaz, dal canto suo, esitava a sferrare una nuova offensiva, insicuro della tenuta dei suoi uomini e diffidente sulla disintegrazione dell’esercito imperiale. Il 24 ottobre 1918, tuttavia, l’attacco italiano sul Grappa e sul Piave venne portato con tutti i mezzi disponibili e con l’ausilio di un corpo d’armata britannico. La resistenza austriaca fu ostinata e rocciosa e costò cara agli italiani. Poi, a fine ottobre, l’esercito imperiale si squagliò definitivamente mentre le diverse nazionalità proclamavano l’indipendenza. La guerra terminò il 3 novembre e il cessate il fuoco entrò in vigore il giorno successivo mentre le nostre truppe entravano in Trento e in Trieste. Una settimana dopo anche la Germania chiedeva l’armistizio. Nel giro di dieci giorni caddero tre imperi: germanico, austroungarico e ottomano. La resa dell’Austria fu determinante per la resa della Germania ma alla conferenza di Versailles l’apporto italiano non venne riconosciuto appieno, mentre il primo ministro Orlando, da parte sua, avanzava pretese difficilmente sostenibili. Nasceva il mito della vittoria mutilata e quel disordine sociale che avrebbe portato all’affermazione del fascismo.
Sulle conseguenze della vittoria si possono fare due considerazioni: una di tipo numerico e statistico, l’altra di carattere ideologico e sociale.
In tutto vi furono 530mila caduti al fronte oltre a 50mila morti per malattia e a ben 100mila morti in prigionia. Questo ultimo dato è stato oggetto di studio in tempi recenti e risulta agghiacciante pensare che ciò è stato dovuto alla manifesta indifferenza del governo italiano nei confronti dei prigionieri, a differenza di tutti gli altri paesi. Per quanto possa sembrare strano, nella cultura popolare italiana il prigioniero era sinonimo di vile.
E’ interessante notare che il 48 per cento di mobilitati apparteneva alle regioni del nord e che la regione che ebbe più uomini sotto le armi fu la Lombardia. Se, tuttavia, guardiamo alle percentuali delle perdite umane vediamo che, a fronte di una media nazionale del 10,50 per cento, le regioni con la maggior percentuale di caduti furono Basilicata (21,06 per cento), Sardegna (13,85 per cento) e Calabria (11,31 per cento). Questo dato è confermato dalla percentuale di decorati al valore rispetto ai mobilitati, con la Sardegna al primo posto seguita dalla Liguria e dalla Calabria. Sembra, in altre parole, che in fanteria (che aveva il 90 per cento delle perdite complessive) ci andassero soprattutto i meridionali mentre i settentrionali, con più alta scolarizzazione, finissero per accedere alle armi dotte e quindi in retrovia. Per cui si può dire che fu proprio la “chair à canon” dei meridionali a salvare l’Italia.
Il secondo spunto è la non comprensione del miracolo del Piave. La vittoria fu epocale, senza dubbio, ma i responsabili della nazione la studiarono poco, pensando che contasse il fattore morale, mentre fu l’alleanza con Francia e Inghilterra a permettere la libera circolazione della materie prime che servivano alla guerra. Una lezione dimenticata da Mussolini che si alleò con quello che era, da sempre, indicato come il secolare nemico dell’Italia. Un’alleanza così innaturale che non ci si può stupire se già la stessa sera dell’8 settembre 1943 i militari italiani combattevano contro gli ex alleati con ardore e intransigenza. Mussolini aveva compreso che la Grande Guerra era stata vinta dal popolo italiano nel suo complesso ma stentò a comprendere fino in fondo come il materiale contasse più della carne.
Da un punto di vista storiografico e di sentimento nazionale la Vittoria fu celebrata come tale per molti anni dopo la caduta del fascismo. Per esempio perfino sul Corriere dei Piccoli ancora nel 1968 l’evento era ricordato con figurine da ritagliare e racconti di guerra, una cosa oggi inconcepibile. Progressivamente, proprio dal 1968, si è assistito a una revisione del mito della Vittoria, giustamente sfrondandolo della retorica che lo ammantava e ricordando la giustizia sommaria che colpì tanti soldati. Ma, come sempre accade agli italiani che costruiscono miti come Garibaldi, Mazzini e lo stesso Mussolini, nessun mito resiste a una critica serrata. Senonché si assiste al suo esatto rovescio, ossia alla formazione di un mito negativo, dimenticando, per esempio, che Garibaldi fu effettivamente un ottimo comandante, che Cavour fu un grande statista e Mussolini un leader di eccezionale livello: questo pur dicendone tutto il male possibile. E un cattolico antifascista come chi scrive rischia, per aver espresso simili giudizi, di passare per massone o fascista.
Il vero errore è stato proprio quello di perpetuare un mito trionfalistico che, a fronte di 650mila morti, perdeva valore. Come è stato possibile, allora, che gli inglesi ricordino l’11 novembre come il Remembrance day pur avendo avuto 900mila caduti oltre a 300mila civili deceduti per causa di guerra? E questo senza considerare altri 200mila morti tra Australia, Nuova Zelanda, Canada e India. La risposta può essere trovata in quanto scriveva Basil Liddell Hart nel 1990 a chiusura del suo La prima guerra mondiale 1914-1918 (Rizzoli 1968). “Il giorno dell’armistizio è diventato più una commemorazione che una celebrazione. Il trascorrere del tempo ha fuso e purificato le prime, immediate emozioni cosicché, pur non essendo venuta meno in noi la sensazione dolorosa delle perdite umane che la guerra ci è costata, né quella serena gratitudine per il fatto che come nazione ci siamo dimostrati capaci di far fronte alla più grave crisi della nostra storia [nda: mancavano 15 anni alla vittoria contro il nazismo] oggi noi siamo soprattutto consapevoli delle ripercussioni generali che la guerra ha esercitato sul mondo e sulla civiltà. In questo spirito di riflessione noi siamo più disposti a riconoscere le imprese e i punti di vista dei nostri ex nemici, forse tanto più ci rendiamo conto che sia le cause, sia l’andamento stesso di una guerra sono determinati più dalla stupidità e dalla fragilità umana che non da una deliberata malvagità della natura umana” (p. 597-598).
Erano passati appena dodici anni dalla fine del conflitto e già uno studioso come Liddell Hart, ferito sulla Somme, poteva essere così sereno e olimpico nello studio di ciò che aveva vissuto di persona. Questa commossa consapevolezza si ritrova ancora oggi nelle aiuole vicino al Parlamento di Londra, cosparse di poppies (papaveri) di carta che ricordano i caduti di tutte le guerre sostenute dalla Gran Bretagna, dalla Somme all’Afghanistan. Forse la trasformazione dell’anniversario da festa dell’Unità nazionale a giornata del ricordo dei caduti riporterebbe a una vera, più sentita unità nazionale di cui tutti abbiamo bisogno.
(4 – fine. Leggi qui le puntate precedenti)