Indipendentismo e centralismo, globalizzazione e diversità, patriottismo e internazionalismo, identità e accoglienza, giustizia e misericordia, libertà e verità… E quante altre coppie di parole potremmo mettere in serie per dare l’idea di un mondo che sembra entusiasmarsi all’idea di edificare nuovi muri, o disperarsi per l’incapacità di impedirne la costruzione… E quanti dei valori espressi da queste parole non potrebbero invocare ragioni valide a loro sostegno? E come porsi davanti alla storia, quella passata e quella che ci attende, con i suoi vecchi muri che credevamo distrutti e quelli nuovi che stanno nascendo?



Cominciamo col dire una cosa che dovrebbe essere evidente ma che sembra dimenticata da tutti: se parole come verità e libertà o giustizia e misericordia continuano a contrapporsi significa che c’è qualcosa di sbagliato nel nostro modo di considerarle, perché davvero chi di noi vorrebbe una libertà condita di menzogne di cui vergognarsi e chi di noi vorrebbe una verità che si regge su una violenza non meno biasimevole?



Forse se prendiamo qualche esempio dalla questione della storia e della memoria la cosa può diventare più chiara. È una questione che in tanti paesi civili e pacifici della nostra Europa semina ancora divisioni sanguinose all’interno delle stesse famiglie. In Russia è la vicenda, recentemente rimessa in primo piano, di chi ha scoperto di avere avuto nella propria famiglia, contemporaneamente, carnefici e vittime, gente che era finita in un campo e gente che ce l’aveva mandata. E i paesi baltici ci presentano una vicenda ancor più complessa: non è solo il vecchio problema di come guardare all’Armata rossa, che indubbiamente liberò questi paesi dalla tirannide nazista, ma nello stesso tempo spedì nei campi siberiani decine di migliaia di innocenti che la tirannia sovietica considerava potenziali nemici. A questa vecchia storia se ne è aggiunta recentemente un’altra, che a dire il vero non è meno vecchia: quella di patrioti che avevano in un modo o nell’altro collaborato coi nazisti. Dov’è allora la verità? Dov’è il bene?



Come rispondere senza cadere in un giustizialismo che farebbe rinascere vecchie divisioni e senza precipitare per altro in un relativismo che scaverebbe un solco ancora più grande, aggiungendo alle vecchie divisioni anche la divisione di un popolo che non sa più trovare un linguaggio comune davanti alle cose, non alle cose astratte ma alla propria storia reale?

Perché un’altra cosa che dovrebbe essere evidente è che la verità non è un concetto astratto, né tanto meno qualche documento trovato in un archivio, tolto dal suo contesto e dalla sua storia.

Di recente è morto Arsenij Roginskij, un grande storico, che era stato anche un grande testimone della verità e della libertà nella Russia del XX secolo; in gran parte a lui si deve l’attività di quell’incredibile fucina di testimonianza che è Memorial, l’associazione che mantiene viva la memoria dei campi sovietici. Roginskij, che per il suo amore di una storia libera si era fatto quattro anni di lager, amava raccontare una storia che aveva imparato proprio lavorando negli archivi. Un giorno aveva trovato dei documenti che sembravano inchiodare alle sue responsabilità un personaggio apparentemente non coinvolto nei crimini del passato regime. Aveva resistito a lungo all’idea di renderli pubblici: lo scrupolo dello storico, certo, ma soprattutto, raccontava, la preoccupazione di non rovinare una persona per il gusto di mostrare una propria preziosa scoperta. E poi, qualche tempo dopo, aveva scoperto che quei documenti erano contraddetti e smentiti da altri, più precisi, più circostanziati. Raccontava di aver sempre benedetto quell’esitazione e di aver sempre cercato di attenersi da allora a quello che era stato il motivo e la regola del suo lavoro: “L’unità di misura di Memorial è l’uomo, l’unità di interesse di Memorial è l’uomo e i documenti attorno all’uomo”. 

Davvero la verità non è un concetto astratto, un documento trovato in un archivio, ma il bene della persona; ed è l’amore per il bene della persona che ti guida poi alla scoperta della verità. E la verità a questo punto si rivela in tutta la sua potenza, che è una cosa più grande di quella che credi di possedere e dominare con le tue misure o con le tue forze.

Nessun relativismo, il male restava male e il bene restava bene, ma tali restavano in relazione alla persona, e questa relazione, caratterizzata dal bisogno di capire, da un senso di rispetto per l’altro e per il proprio limite, prima che dal pur giusto desiderio di regolare i conti col male, aveva permesso di scoprire una verità più grande.

E da qui un paradosso ancora più sorprendente: quel ritegno che era sembrato non solo una mancanza nei confronti della verità ma persino una connivenza e una forma di passività nei confronti del male, cui permetteva apparentemente di circolare e di prosperare impunito, alla fine si era mostrato una difesa della verità ben più efficace di ogni denuncia.