Viviamo in un’epoca in cui attraversare un confine comporta semplicemente prestare attenzione a un cartello che segnala l’ingresso in un altro paese. Al limite, come avviene per la Svizzera, si attraversa una frontiera che nella peggiore delle ipotesi è sorvegliata dalle forze dell’ordine. Capita che fermino un’automobile ogni cinque o sei, domandando pigramente i documenti e magari destinazione e motivo del viaggio. Sicuramente non è semplice immaginare quella che passò alla storia con il nome di “Cortina di ferro”. Una lunga, interminabile barriera che da Nord a Sud divideva in due l’Europa. Il suo scopo era impedire ai cittadini dei vari paesi del blocco orientale di attraversare “illegalmente” il confine. Illegalmente, perché per poter viaggiare all’estero era necessario che lo Stato approvasse.



Nel caso della Cecoslovacchia di Klement Gottwald si parla di circa 23mila persone fuggite dal paese tra il 1948 (anno del colpo di Stato comunista) e il 1950. La costruzione della Cortina di ferro permise al regime di ridurre drasticamente questa emorragia. Chi tentava la fuga era costretto a cercare punti deboli nella barriera — per lunghi tratti anche elettrificata — di travi e filo spinato, oppure tentare l’attraversamento del confine nei pressi di qualche corso d’acqua che fosse facile da attraversare a nuoto o tramite imbarcazioni di fortuna. In ogni caso, non si trattava di qualcosa di semplice da mettere in pratica. Chi decideva di tentare di espatriare illegalmente sapeva di rischiare anche la stessa vita: la zona nelle immediate vicinanze del confine era territorio di pattuglie continue di uomini con cani addestrati all’attacco; diverse zone dov’era particolarmente difficile pattugliare con efficacia erano state minate in maniera capillare; infine, la legge per la protezione dei confini nazionali prevedeva che le guardie di frontiera potessero sparare sui fuggiaschi senza esitazione. Il destino per chi venisse arrestato durante un tentativo di fuga non era certo dei migliori: prigionia, torture, lavori forzati. E a tutto questo seguiva la sistematica discriminazione una volta riconquistata la libertà, con vessazioni di ogni genere e l’impossibilità per il singolo e per i propri familiari a poter svolgere un lavoro dignitoso o a portare a termine gli studi.



Nel 1951 comunque le conseguenze a lungo termine dell’opporsi al regime non erano ancora conosciute dai cechi e dagli slovacchi: a essere già evidente era il fatto che il potere non facesse sconti a chi aveva idee non conformi alle decisioni del Comitato centrale del partito. La Cortina di ferro era lì a impedire che lasciare la Cecoslovacchia in cerca di libertà fosse un’impresa semplice ed era già successo diverse volte che tentativi di fuga finissero in tragedia. È quindi facile immaginare lo stato d’animo di chi nonostante tutto decideva di organizzarsi e partire.

La nostra storia parte da Cheb, in Boemia, non lontano dal confine con la Repubblica Federale Tedesca, nel settembre 1951 ancora sotto il controllo delle truppe americane. Jaroslav Konvalinka è un macchinista delle Ferrovie statali cecoslovacche. Insieme al collega Karel Truksa ha già sperimentato sulla propria pelle la violenza del regime. Entrambi sono stati brutalmente interrogati dalla StB, la polizia segreta, e sono stati incarcerati. Sentono di non avere un futuro in Cecoslovacchia e iniziano a pensare di tentare la fuga al di là del confine. Jaroslav Švec invece è un medico condotto cui viene chiesto spesso di prestare servizio nelle carceri del regime. È in questo modo che incontra i due ferrovieri e condivide con loro il desiderio di lasciare il paese. Švec non ha manifestato ancora in alcuno modo la propria dissidenza. La polizia segreta gli chiede la collaborazione: dovrebbe fare il delatore nei confronti dei pazienti che visita sia nel proprio ambulatorio che in prigione. Il medico in coscienza decide di non poter accettare una cosa del genere. Quando Konvalinka e Truksa gli confidano di aver iniziato a pensare a un piano per fuggire al di là della Cortina di Ferro, il dottore decide di unirsi a loro.



Il piano che i tre uomini iniziano a mettere a punto deve prima di tutto tenere conto di un fattore particolarmente critico: nessuno di loro vuole lasciare indietro la propria famiglia, ben sapendo le conseguenze a cui i familiari andrebbero incontro rimanendo in Cecoslovacchia. Escludono quindi a priori l’idea di passare il confine a piedi, anche perché nel 1948 un tentativo simile era fallito e Vojtch Rygal, un sacerdote cattolico, passò alla storia come il primo religioso ucciso dal regime cecoslovacco. A far decidere Konvalinka, Truksa e Švec è un dettaglio tanto piccolo quanto significativo: il riscaldamento della città di Aš è fornito da una centrale termica che si trova al di là del confine, in Germania. Perché la centrale funzioni, però, i cechi devono rifornirla di legna e carbone, che vengono trasportati oltreconfine attraverso la ferrovia. Konvalinka e Truksa sanno che a volte dopo il passaggio del treno lo scambio non viene manovrato. Decidono quindi di provare a dirottare un treno, il locale 3717, dopo aver verificato le condizioni dello scambio, portarlo oltreconfine insieme alle proprie famiglie. E ai passeggeri rimasti nel convoglio, naturalmente.

I tre decidono che il giorno giusto per mettere in atto il piano è l’11 settembre. Il dottor Švec ha il compito di verificare che lo scambio, posto tra la stazione di Aš e il confine, sia nella posizione giusta. Il treno, che era solito viaggiare con la locomotiva in coda, viene riconfigurato da Konvalinka, che sposta la locomotiva in testa: solo così sarà possibile sfondare la barriera al confine senza rischi per i passeggeri. Alla stazione di Hazlov, l’ultima prima del capolinea Aš, il dottor Švec sale sul treno insieme alla propria famiglia e conferma che lo scambio è posizionato correttamente. Non si torna più indietro: con uno stratagemma i due ferrovieri si liberano del fuochista, comunista convinto che gli avrebbe solo potuto creare problemi. Truksa si occupa di sabotare i freni di emergenza nei vagoni. Il treno lascia la stazione di Hazlov. Avvicinandosi alla stazione di Aš Konvalinka riduce la velocità di marcia, per poi accelerare nuovamente. Tra lo stupore generale il locale 3717 attraversa la stazione a 70 Km/h e si lancia verso il confine tedesco. La situazione inizia a essere pericolosa: a bordo ci sono anche una dozzina di guardie di frontiera, che Švec tiene a bada con il solo aiuto di una pistola. Scarica…

Il treno travolge le barriere messe a protezione del confine. Lo supera. Rallenta. Dopo circa 500 metri, all’altezza della prima casa cantoniera in territorio tedesco,  Konvalinka ferma il convoglio. Si tratta di una scelta molto lucida e razionale, data l’impossibilità di sapere, a quel punto, se non ci fosse traffico in arrivo dalla direzione opposta. Ma la tensione a quel punto sale esponenzialmente: il timore di una rincorsa da parte delle forze dell’ordine cecoslovacche, ma anche l’incertezza sull’approccio che i tedeschi (e i militari americani di stanza nella zona) avrebbero potuto tenere nei confronti del treno e dei suoi passeggeri rendono l’atmosfera tesissima. La Polizia di frontiera tedesca raggiunge il convoglio dopo una ventina di minuti; passa un’altra mezz’ora e arriva anche la polizia militare americana. Konvalinka, Truksa e Švec intanto hanno spiegato la situazione ai 111 passeggeri del treno. Con l’accordo dei militari tedeschi e americani ai passeggeri viene concesso di poter scegliere se restare o tornare in Cecoslovacchia: 35 di loro restano, gli altri, insieme alle guardie di frontiera, scelgono di tornare. Molti di loro non hanno scelta, essendo adolescenti di ritorno a casa dai vari licei di Cheb.

Al treno condotto da Konvalinka non resta che procedere nel viaggio, a passo d’uomo, verso la stazione di Selb-Plossberg, che nel frattempo è stata prontamente blindata dai militari americani. Si conclude così il viaggio del “Treno della libertà”, il piano di fuga perfetto architettato da tre uomini animati da un desiderio di libertà e di un futuro migliore per sé e per i propri cari.

Se a ovest della Cortina di ferro la notizia si diffonde, suscitando entusiasmo e ammirazione per i protagonisti, in Cecoslovacchia il regime è sotto choc e ricorre alla censura. Le guardie di confine sono sotto accusa per aver permesso la realizzazione di questa fuga. I passeggeri che hanno scelto di tornare devono affrontare interrogatori e pressioni da parte della StB. Nessuno parla del “Treno della libertà” per giorni. Quando finalmente il regime, scosso, avvia la macchina della propaganda, parla semplicemente di “atto terroristico” realizzato con “armi fornite dagli imperialisti americani”. Ma di arma ce n’era soltanto una: la pistola scarica con cui il mite dottor Švec ha tenuto a bada dodici guardie di frontiera che avrebbero potuto sopraffarlo in qualunque momento.

Ci sono molte altre storie sulla Cortina di ferro e su quanti cercarono di superarla. La televisione pubblica ceca ne ha raccolte trentanove  in una serie di brevi documentari da circa quattordici minuti ciascuno. Ma sono pezzi di storia che dovrebbero poter attraversare i confini liberamente, per iniziare a far parte di un patrimonio storico comune europeo.