Orazio scrive per una delle donne che ha amato e che ora preferisce un altro. Il poeta più elegante del mondo augusteo rivela il tormento della gelosia con le forme perfette della sua arte. Ma non è detto che vi sia, sottesa, anche l’amarezza di un episodio vissuto. 

Lidia, quando mi elogi 
Telefo per il collo “che è di rose”,
quelle braccia di Telefo “di cera”,
a me una brutta bile gonfia il fegato,
mente e sangue si perdono e le lacrime
rigano il viso senza che mi accorga
e denunciano il fuoco
lento che mi consuma. Brucio
se un litigio brutale e il troppo vino
hanno offeso le spalle luminose, 
o se mi sovviene che il ragazzo
abbia lasciato il segno coi denti sulle labbra.



La passione dell’autore, vissuta e sofferta oppure solo materia di raffinata finzione letteraria, è qui descritta con molti particolari fisici: da una parte la dolcezza degli abbracci e delle membra profumate, la luce delle spalle e le labbra baciate con troppa veemenza. Dall’altra la bile della rabbia e della malinconia, lo scorrere delle lacrime che denuncia l’ardore persistente dell’amante abbandonato. L’insistenza sugli aspetti fisici dell’amore è evidenziata dall’assenza di ogni elemento naturale: la scena è completamente riempita dai due uomini e dalla donna contesa. Sarà così anche per il resto dell’ode:



Non pensare mai – credimi un poco –
che sempre l’amante ti ferirà selvaggio
con i dolci baci, che Afrodite ha intriso
del suo più puro profumo.

Ritornano gli ossimori dell’inizio (lacrime/fuoco; fuoco lento/brucio), anzi sembrano potenziati al pari della consapevolezza: un poco/mai; selvaggio/dolci baci e preparano i quattro versi finali, che appaiono percorsi da una nostalgia più sentita e più vasta di quella provocata dal singolo episodio. Senza affatto cadere nella sentenza, Orazio chiude con una nota molto umana, il desiderio che l’amore duri per sempre, fino al giorno della morte:



Felici mille volte quelli che
sono uniti da un nodo mai reciso
e il cui amore non lacerato dai lamenti
sarà sciolto solo dal giorno estremo.