Neanche negli ultimi decenni la domanda è mutata: la storia della massoneria durante il fascismo si può davvero sintetizzare nella dichiarazione di incompatibilità — per “camerati” e “fratelli” — proclamata nel febbraio 1923 dal Gran consiglio del Partito nazionale fascista (Pnf) e nelle persecuzioni che ne seguirono per gli iscritti alle logge?
Questa gelata finale fu, è vero, un atto plateale di ingratitudine. Due episodi ne costituiscono la sintesi. Mi riferisco da una parte alla morte al confino, e da vigilato della dittatura, di Domizio Torrigiani, il capo del Grande Oriente d’Italia (con sede centrale a Roma, a Palazzo Giustiniani), e dall’altra alla comoda vita da “mantenuto” (o protégé) del grande capo di Piazza del Gesù (sempre a Roma), Raoul Palermi. Dal luglio 1929 al marzo 1941 ricevette 3mila lire al mese, sborsati metà dalla Marina mercantile e metà dalle Ferrovie dello Stato.
In altre parole, come gran parte della popolazione italiana una parte dei massoni si arrese al fascismo e ne fu inizialmente beneficiata con l’assegnazione di incarichi e posti di (maggiore e minore) responsabilità. Un’altra parte si unì, al confino, in carcere, come fuorusciti o esuli in patria, alla schiera (per la verità assai poco numerosa) degli antifascisti, e ne subì la sorte.
C’è stata, però, un’asimmetria che non si può negare. Intendo dire che quella dei massoni fu, in realtà, una vicenda diversa e a suo modo esemplare.
Uno storico come Gerardo Padulo ha dedicato metà della sua vita di studioso a ricostruire la storia dei rapporti di questa potente associazione segreta col fascismo. Lo ha fatto, come conferma il suo ultimo apporto (L’ingrata progenie. Grande guerra, massoneria e origini del fascismo (1914-1923), Nuova Immagine, Siena 2018), non con una sorta di “parti pris”, ma colmando la solitudine (soprattutto all’inizio della sua attività di ricercatore) col ricorso ad una bibliografia e ad una documentazione molecolare, scovata negli archivi pubblici e privati.
Questo fu, e continua ad essere, un metodo di lavoro sicuramente valoroso, anche se, a mio avviso, dell’importanza e della qualità di queste ricerche le case editrici non si sono mai accorte. Il sospetto che i “fratelli”, ancora molto potenti, anche nel mondo dell’editoria, possano avere usato poteri di veto nei confronti delle ricostruzioni storiche di Padulo (che ne ha subìto, se posso dirlo amichevolmente, una sorta di sindrome permanente, cioè di ossessione), è ragionevole. Occorre, però, aggiungere che finora a tali ipotesi e dubbi (che sarebbero, invece, incomprensibili per le banche, penso a quelle dell’Emilia Romagna) è mancato qualunque valido elemento probatorio, lasciando le deduzioni separate dalle prove.
Grazie al rigore degli studi di Padulo possiamo dire che il fascismo sin dalle origini ha potuto contare sulla collaborazione degli esponenti massonici in una misura non comparabile con le compiacenze, l’azione convergente o parallela, il vero e proprio opportunismo di altre forze politiche.
Il supporto della massoneria ai fasci di combattimento si è manifestato sia nel concedere loro in uso le proprie sedi, sia nella promozione dell’attività editoriale. Penso a “Imperia”, dovuta all’impegno del ministro bolognese Dino Grandi). Ugualmente massonico fu il finanziamento del partito.
In comune con fasci e Pnf ci fu un calcolo delle convenienze, uno scambio fenicio. Nessuna concordanza ideologica o programmatica è risultata, al di là della comune avversione a socialisti e cattolici. Secondo Padulo, forse “è per la massoneria uno degli ultimi, e vani, tentativi di cavalcare e ammansire il fascismo. Per Mussolini e i suoi ras il problema è invece quello di neutralizzare la massoneria, di averla a fianco, e non contro, nei mesi in cui preparano la marcia su Roma e ne gestiscono subito dopo i risultati”.
Al contributo finanziario e pratico dato dai massoni alle camicie nere, Padulo ha dedicato una ricerca che ha avuto il sostegno di una rivista tanto discreta (non si è mai mischiata ai rumori della politica) quanto importante come Le Carte e la Storia, fondata e diretta da Guido Melis.
Mi riferisco alla pubblicazione della lista degli oblatori del Pnf nel Quaderno n.1 di quest’ultima. Non è merito da poco che con questo saggio Padulo abbia contribuito ad ampliare la documentazione, e l’analisi, offerta nel 1964 da Renzo De Felice. La conseguenza è stata di mettere in dubbio, se non contrastare, l’interpretazione avanzata dal principale biografo di Mussolini del regime fascista come l’ideologia e il meccanismo politico-istituzionale dei ceti medi.
Le oblazioni oscillarono tra le 200mila lire del Credito italiano e le 100 lire di una drogheria. Ma le cose si precisano meglio se si tiene conto che nelle liste fornite da De Felice, Padulo e Della Torre risaltano tutti i nomi dei “padroni del vapore”, non solo della grande industria, del periodo. Basta pensare che si affrettarono a sottoscrivere finanziamenti quasi tutti quelli dell’epoca: Max Bondi e Lorenzo Allievi (rappresentanti dell’industria elettrica), il grande “pescecane” dell’Ilva Giacinto Motta, l’imprenditore automobilistico Giovanni Agnelli, tutte la rete degli istituti bancari, massoni di ogni rango, esponenti di ogni livello militare eccetera. La grande industria e il grande capitale non si lasciarono impaurire delle proclamazioni rivoluzionarie di Mussolini e ne sostennero l’attività politica iniziale. Forse per il loro spiccato antisocialismo e forse temendo il sopravvento in ambito politico dei cattolici del Vaticano e di don Luigi Sturzo.
Padulo ha ragione a chiedersi se, nel caso che all’epoca si fossero conosciuti questi finanziamenti, “sarebbe stato possibile ai fascisti e ai loro estimatori sostenere che il fascismo era antisocialista quanto anticapitalista”.
Le maggiori istituzioni dello nostro Stato liberale ne se mostrarono angustiate. Infatti il ministero dell’Interno, che era al corrente di questi contributi già prima del 1922, preferì chiudersi in una loquacissimo silenzio.
Purtroppo si è caduti dalla padella nel la brace, dal momento che in un settore consistente della storiografia (non solo ad opera di Daniel Guérin) si è affermata l’idea che Mussolini e il Pnf avessero assunto la rappresentanza del grande capitale. Sono gli eccessi in cui spesso cade la sinistra (per usare un termine generico) anche ad opera di studiosi, e non solo di politici.
Non ha avuto seguito per un lungo periodo di tempo quanto scaturiva dall’analisi controcorrente e altamente innovativa alla quale si era dedicato Sabino Cassese. Inizialmente nel polemizzare con un saggio di Giorgio Gualerni e in secondo luogo nel pubblicare sulla rivista di Alberto Caracciolo alcuni capitoli della sua vecchia tesi di laurea (Corporazioni e intervento pubblico nell’economia).
Se poteva essere frutto di una lettura puramente tecnica dei dispositivi normativi o di una bella ingenuità, scambiare il ruolo delle corporazioni per una forma di autogoverno e il tentativo di radicare il conflitto dentro le istituzioni statali, non c’è però dubbio che questi organi (di cui manca gran parte della documentazione ministeriale) esigevano una riflessione particolare, non ideologica.
Lo sforzo fatto da Cassese fu di cercare di comprendere il disegno che eventualmente c’era stato da parte del fascismo in tema di intervento pubblico nell’economia. Nell’architettura costruita coabitavano da un lato uno strumento come le corporazioni (debolissime e complessivamente rivelatesi estranee alla presenza pubblica nel sistema delle imprese, anche se ad esse era stata affidata la disciplina dei rapporti di lavoro e il controllo statale); e, dall’altra, l’adozione di alcune forme incisive della gestione come la legge sull’autorizzazione degli impianti industriali, la legislazione sul sistema bancario e più in generale sul governo dell’economia. Di sudditanza al grande capitale era arduo parlare, salvo verificare il rapporto di volta in volta (e quindi non organicamente) stabilito dai ministeri competenti con le singole imprese (e a loro favore).
Sul consenso sociale avuto dal fascismo delle origini Padulo ha proposto un’interpretazione in qualche misura ancora più radicale. Ha infatti sostenuto che la data di nascita non sia quella dell’adunata milanese di Piazza San Sepolcro (23 marzo 1919), ma vada spostata indietro nel tempo, cioè retrodatata, per farla coincidere con la fondazione, nel tardo autunno 1914, ad opera dell’allora dirigente socialista Benito Mussolini, del quotidiano Il Popolo d’Italia. Duplice sarebbe stato l’obiettivo: trascinare il Psi dalla linea della neutralità a quella della partecipazione, facendo così assumere al conflitto 1914-18 il carattere di una guerra di popolo.
Trovo opinabile, e poco convincente, la tesi prospettata, peraltro con buoni argomenti, da Padulo. A suo avviso, la massoneria avrebbe perseguito il disegno di coinvolgere i socialisti nella guerra per neutralizzarli e impedire loro di porsi alla testa del movimento di rivolta/reazione alle conseguenze della guerra che si sarebbe dispiegato (come, in realtà, avvenne) nel paese.
Viene dunque argomentata con molta nettezza l’idea che il regime di guerra sia stato l’antefatto e il prologo del regime fascista, e addirittura che questa equivalenza abbia fatto parte di un vero e proprio progetto politico.
Sfortunatamente manca il sostegno di riferimenti ad analisi e deliberazioni degli organi dirigenti della massoneria. Ci si affida a qualche dichiarazione e brano tratto da scritti di esponenti politici che facevano capo alle logge di Piazza del Gesù o di Palazzo Giustiniani. Ma questa circostanza mi pare una prova documentaria meno forte di quanto Padulo sia disposto a concedere.
L’iscrizione alla massoneria di uomini politici (non solo liberali), di funzionari dello Stato, professionisti, ufficiali delle forze armate, sindaci, intellettuali ecc. è stata un fenomeno normale e in grande misura inevitabile. Fu, infatti, altamente diffuso (ed è quindi assai poco significativo) tra quanti avevano partecipato al processo di unificazione nazionale. Non si può dimenticare, né sottovalutare, che la creazione dello Stato liberale in Italia come in mezza Europa fu opera della massoneria.
E’ la ragione per la quale Antonio Gramsci, intervenendo in parlamento, per conto dei comunisti, a contrastare il voto del governo a favore dello scioglimento della rete delle associazioni massoniche, si spinse fino a definirle come espressione del partito della borghesia italiana. In realtà il Grande Oriente ha potuto contare anche sul reclutamento di molti socialisti.
Combattere il nemico interno (cioè il Psi) per potere successivamente fare i conti col nemico esterno (le armate dello Stato austro-ungarico) è l’indicazione di una vera e propria strategia. La si trova contenuta nell’interpretazione degli storici che hanno identificato il regime fascista col regime di guerra.
Questo è di gran lunga anche il punto di vista di Padulo, che ne ha fatto un elemento centrale della sua critica — redatta per l’Indice dei libri — alla ricostruzione, presso il Mulino, di uno studioso di prestigio come Roberto Vivarelli.