“La brezza leggera accarezza l’acqua del grande fiume dopo il riposo dell’inverno e lo spirito di Dio corre sulla pianura per risvegliare l’erba dei prati, i fiori nei fossi e la linfa nelle radici degli alberi. Così rinasce la vita”. Così racconta nonno Ercole a Bruno, il protagonista e narratore di Quando il cielo era il mare e le nuvole balene (Giunti 2018), il nuovo romanzo di Guido Conti.
Nato a Parma, scoperto da Pier Vittorio Tondelli, Conti è un appassionato studioso e cultore dell’opera di Zavattini, di cui ha, fra l’altro, curato l’edizione degli scritti giovanili (Dite la vostra, Guanda 2002), ma si è anche occupato di Guareschi (Giovannino Guareschi. Biografia di uno scrittore, Rizzoli 2008, Premio Hemingway per la critica). E ad atmosfere guareschiane ci riporta, in fondo, questo romanzo, sia per quanto riguarda le ambientazioni che per le situazioni narrative, oltre che per l’icasticità del racconto e della lingua: anche qui troviamo il grande fiume, le cascine perse nella vastità della pianura, e un intreccio di storie e di esistenze, in quelle corti immense abitate da famiglie numerose, tipi bizzarri, ragazzi vivaci; tutti elementi che possono ricordare, in effetti, le opere del creatore di Don Camillo.
Il protagonista di Quando il cielo era il mare e le nuvole balene è dunque un ragazzo, Bruno, che il romanzo segue negli anni della crescita, da bambino a giovane adulto: Bruno, orfano di madre, vive con nonno Ercole e nonna Ida, perché il padre, soprannominato l’Americano, è emigrato in cerca di fortuna oltreoceano. Nonno Ercole, socialista, sognatore, uomo di grandi ideali, passa le serate a scrivere lettere ai grandi del suo tempo; nonna Ida, la guaritrice locale, è conosciuta nella zona, e a lei si rivolgono continuamente gli abitanti dei dintorni per i loro malanni piccoli e grandi.
L’infanzia di Bruno scorre in una dimensione all’apparenza fuori dallo spazio e dal tempo, piena di episodi dal sapore quasi fiabesco, come nel caso di Millemosche, l’amico di mille avventure e mille scherzi, che scoprirà la sua vocazione esistenziale (quella cioè di lavorare con i cavalli), attraverso un sogno fatto una notte in cui è rimasto chiuso in chiesa. La dimensione favolistica delle prime pagine è accentuata, del resto, dall’immagine stessa su cui si apre il romanzo: migliaia e migliaia, anzi, milioni di anni fa, infatti, la grande pianura non esisteva; essa era occupata dal mare, in cui nuotavano, forse proprio dove noi oggi vediamo le nuvole, le balene. E nonno Ercole non manca mai di ripeterlo al nipotino, anche se nonna Ida è contrariata da questi racconti troppo fantasiosi.
Ma ogni favola deve avere una fine, e presto anche nella grande corte, affollata di famiglie e di piccole e grandi storie, entra la Storia: nello specifico, la guerra, ovvero il secondo conflitto mondiale; insieme alla paura dei bombardamenti, alle presenze inquietanti e violente dei tedeschi, arrivano anche gli sfollati. Così Bruno conosce Laura, una ragazzina di città, che con la madre e il fratello ha cercato rifugio in campagna. Ma, oltre a Laura, l’altra presenza importante è l’Americano, il padre assente e mitizzato, un autentico avventuriero, impegnato nella Resistenza, ma anche dedito a traffici e commerci di vario tipo, ai limiti e, spesso, oltre i limiti della legalità.
E dopo gli anni difficili della guerra, arriva il non meno difficile dopoguerra: nelle campagne, i regolamenti di conti, sanguinosissimi, continueranno infatti per molti mesi, ben oltre il 25 aprile 1945; la grande corte si spopola, e restano solo Bruno con i nonni, sempre più deboli e anziani. Dal canto suo, l’Americano è sempre più impegolato in loschi traffici, e sembra avere una disponibilità illimitata di armi e denaro; ma il rischio è sempre dietro l’angolo; e poi, c’è anche una donna, Betty, dalla bellezza sfrontata e decisa, che si accompagna all’Americano, e verso la quale Bruno prova immediatamente una istintiva antipatia.
Quando il cielo era il mare e le nuvole balene è un affascinante romanzo di formazione, non privo di momenti di commozione pura, che è anche un inno alla memoria, memoria personale che si fa memoria collettiva, unica speranza di sopravvivenza e insieme responsabilità di chi, scrivendo, si vede affidato il compito di mantenere in vita il ricordo di chi è stato e non è più: come riflette Bruno, nel momento in cui si accinge a lasciare la corte dove è cresciuto per trasferirsi lontano, ripensando ai tanti personaggi conosciuti e incrociati. “Ascoltavo le loro voci che continuavano a risuonare dentro la mia anima, sentivo di essere diventato il loro scrigno, la loro verità, tra gioia e malinconia. Ero diventato il custode dei loro pensieri, il testimone del loro passaggio leggero sulla terra. E dovevo rendere giustizia a tutti, perché questo era adesso il mio compito. Rendere giustizia e testimonianza della loro vita, cercando il senso profondo dell’essere stati qui”. E in queste ultime parole comprendiamo il senso e il perché della singolare composizione ad anello su cui si regge il romanzo.