C’è da sempre un dibattito sul carattere dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. La sua approvazione e applicazione ebbero luogo nel 1992-1993 per l’impegno del governo e personalmente del suo stesso presidente, il costituzionalista e uomo politico socialista Giuliano Amato.

Il punto da cui partire è l’opposizione di mezzo parlamento, di numerosi giuristi (cattolici e no), delle preoccupazioni sorte in seno a molti partiti (compreso il Pci) alla trasformazione in legge del decreto varato dal governo (l’ultimo) Andreotti. Per non parlare dall’accoglimento parziale che il 41 bis ebbe in Nicolò Amato, il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Lo applicò lealmente, ma per puro spirito di servizio. Ugualmente fece l’ex ministro della Giustizia del Governo Ciampi, Giovanni Conso. 



Il punto da cui partire è il seguente: il lavoro investigativo e le sentenze dei magistrati milanesi di Mani Pulite, mettendo sotto schiaffo (con un uso inconsueto della carcerazione preventiva) centinaia e centinaia di esponenti di governo, uomini politici, funzionari, imprenditori ecc. avevano portato ad un oggettivo indebolimento dello Stato.



Amato riuscì nell’impresa di uscire dal serpente monetario, realizzare il pareggio di bilancio con una manovra finanziaria da 100mila miliardi e un prelievo forzoso del 6% (nella notte di venerdì 10 luglio 1992) dai conti bancari (salvo restituirli nel giro di qualche anno).

Contestualmente riuscì a mandare l’esercito in Sicilia (un’impresa mai tentata da nessun altro governo) e a mettere in ceppi lo zar di Cosa nostra, Totò Riina, che fino alla sua cattura era vissuto tranquillamente in un appartamento nel centro di Palermo.

L’altro elemento di incertezza e alla fine di estenuazione della politica fu la carneficina operata nel 1992-1993 dai corleonesi. A cadere furono prima il parlamentare europeo Giovanni Lima e subito dopo, nell’estate 1992, i magistrati palermitani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.



Il governo Amato avrebbe palesato un’insospettabile capacità di resistenza e anche una forte reazione ad una congiuntura politica, economica e finanziaria disastrosa per il nostro paese. Ma avrebbe anche delineato una risposta di alto livello alla criminalità mafiosa.

Per poterla però contrastare in maniera stabile, se non definitiva, gli sarebbe mancato il respiro strategico e la determinazione. Il presupposto di entrambe non poteva risiedere nei dieci mesi della durata della premiership di Amato.

Dai boss di Cosa nostra, in una sede importante come la città di Palermo e il territorio siciliano, la politica era stata posta sotto assedio e quasi tenuta in ostaggio. Mai lo Stato repubblicano si era venuto a trovare chiuso entro una forbice dalle lame così taglienti.

L’attività del team guidato da Saverio Borrelli privilegiò il rafforzamento del potere di influenza dei corpi della magistratura rispetto alla difesa degli stessi diritti degli indagati e degli imputati. Il risultato finale finì per coincidere col disfacimento puro e semplice dell’autorità statale, e con la riforma del sistema elettorale proporzionale.

Contemporaneamente, Cosa nostra aveva messo sotto schiaffo gli apparati di prevenzione e repressione, senza escludere lo stesso potere giudiziario.

Nel 1992-1993, la strada progressivamente imboccata da Totò Riina e Bernardo Provenzano fu quella del terrorismo e delle stragi. Il che avvenne dopo l’eliminazione mirata (cioè personale) di chi (come i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) si era messo di traverso per cercare di impedire che lo Stato fosse protagonista del mercimonio di affari illeciti.

Imprevedibile, ma altrettanto impetuosa fu la risposta impostata dal governo Andreotti e sviluppata dal suo successore Amato. A quest’ultimo si deve la trasformazione in legge del decreto di modifica dell’ordinamento penitenziario (il 41bis) iniziato ad opera dei ministri Claudio Martelli e Vincenzo Scotti. Durante il ministero gestito da Andreotti erano stati rispettivamente alla testa del ministero della Giustizia e del ministero dell’Interno.

Successivamente, siamo ormai nel 1993, da parte dei corleonesi si arrivò fino all’aggressione aperta delle città d’arte e dei beni culturali come Roma, Firenze, Milano.

Questo percorso non fu per nulla lineare. Sfociò nella vera e propria adozione di una nuova, più terribile, linea strategica. Dal terrorismo si passò allo stragismo e allo Stato di emergenza.

Nell’inverno del 1993 durante il governo presieduto dall’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi non mancò un colpo di barra ancora oggi molto discusso e incomprensibile. A prenderlo fu il ministro della Giustizia Giovanni Conso (sostenuto da personaggi vicini allo stesso capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro). Malgrado le smentite molto energiche e ripetute del Guardasigilli torinese, è molto difficile poter ammettere che si sia trattato di un provvedimento isolato, con una responsabilità esclusivamente personale. E non si può facilmente contestare che il suo fondamento fosse la sua scarsa umanità e rispondenza allo spirito impresso da Beccaria alla nostra cultura penalistica. Certamente, però, ci fu uno scambio tra i boss mafiosi e settori dello Stato (in primo luogo l’Arma dei Carabinieri e servizi). Lo mostra bene la sentenza del giudice palermitano Alfredo Montalto.

Tutto ruotò intorno ad un obiettivo: quello di smantellare il contenuto della legge con cui Claudio Martelli e Vincenzo Scotti avevano contrastato l’attività di Cosa nostra. Ad essere preso di mira fu, pertanto, l’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, lo stesso che la Corte europea dei diritti umani ha messo sul banco degli imputati. La sua applicazione ai boss detenuti non richiedeva complesse interferenze e deleghe, cioè la partecipazione di organi e autorità molteplici come è nello stile cosiddetto “partecipato” della democrazia italiana.

La proroga o la revoca dell’art. 41 bis, una volta emesso, era nelle mani, cioè a intera discrezione, di Giovanni Conso. La decisione di non ripristinarlo nei confronti di alcune centinaia di detenuti avvenne nell’estate del 1993. In questo modo si finì per spogliare l’art. 41bis di ogni potere di deterrenza.

La sua forza risiedeva, infatti, in due aspetti cruciali. Da un lato recideva il potere di comunicazione e quindi di comando tra i boss in carcere e i loro sodali; e dall’altro imponeva un regime detentivo molto pesante, direi al limite della stessa umanità, ai boss intrappolati nelle carceri dello Stato.

L’esito finale di questa parabola fu duplice. Per un verso di avere inferto a Cosa nostra un colpo durissimo che ne determinò lo scompaginamento. Ma per un altro verso, dopo che la criminalità dei corleonesi organizzati si trovò di fronte a forme inaspettate di mitigazione delle pene e in generale del regime carcerario del 41bis, di avere ulteriormente ammaccato, fino alla de-legittimazione, l’immagine già in frantumi dello Stato repubblicano.

E’ vero, come ha di recente documentato la ricerca della Bertelsmann Stiftung, che l’indice della qualità della democrazia da 12 anni è praticamente franata al minimo. Ma l’Italia può essere tranquillamente inserita nel novero dei paesi studiati da Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, How Democracies Die, Crown, New York 2018 (“Come le democrazie muoiono”, ndr).