La Primavera di Praga, le manifestazioni studentesche in Occidente: due simboli di quello che fu il ’68, anno di crisi e di svolta all’Est e all’Ovest, compresa l’Urss. Il prossimo convegno della Fondazione Russia Cristiana (12-15 ottobre) metterà a confronto le diverse “esperienze di rinnovamento” all’Est e all’Ovest, solitamente considerate indipendenti. Marija Lipman, nel suo intervento, di cui qui anticipiamo un estratto, individua nei due fenomeni l’identica lotta contro l’inerzia del vecchio mondo fossilizzato, in nome della libertà e della sincerità (ndr).
Allora il mondo lo si vedeva in bianco e nero. Per i sovietici “antisovietici” il comunismo era totalmente nero, mentre l’Occidente e il capitalismo erano bianchi, avevano sempre ragione, dicevano sempre la verità. Viceversa, agli occhi di molti che protestavano in Europa occidentale il socialismo aveva un grande fascino ideologico e politico. La rivolta giovanile si nutriva delle idee e delle figure di sinistra. Ma anche gli studenti non andavano per il sottile: la rivoluzione culturale cinese, che faceva sghignazzare o spaventare i sovietici “antisovietici”, entusiasmava gli studenti francesi con il suo radicalismo. Loro non volevano vederne la ferocia.
In Europa occidentale gli effetti del ’68 si manifestarono praticamente subito. Molti leader delle proteste giovanili entrarono nell’establishment, ai più alti livelli, e misero mano alla trasformazione attiva della società. Ci furono cambiamenti enormi nel campo dei diritti, della giustizia sociale, del libertarismo in tutte le sfere.
In centro Europa, gli ideali della primavera di Praga dovettero aspettare vent’anni per incarnarsi; ma dopo il crollo del comunismo, i protagonisti della resistenza in Cecoslovacchia, Polonia e altri paesi, arrivarono al potere e incominciarono la riforma della società secondo il modello europeo.
In Urss Michail Gorbacev diede avvio alla perestrojka, il che permise ai dissidenti di godere di un breve momento di gloria. Ma i dissidenti non arrivarono mai a ricoprire ruoli politici, e anche l’interesse generale per i loro ideali fu di breve durata. La stessa democratizzazione politica secondo il modello occidentale non è durata a lungo, e anzi è tornata sui suoi passi.
Superate felicemente le conseguenze del totalitarismo, grazie anche al processo unitario, l’Europa dopo il ’68 si è considerata come l’avanguardia della civiltà, e ha creduto che gradualmente tutti gli altri paesi avrebbero preso la sua stessa strada.
Ma dal 2014 è emerso un “altro mondo”, che non solo mostra di esistere, ma che rifiuta decisamente il modello europeo; negli ultimi anni nella stessa Europa si trovano sempre più nemici dell’Unione Europea, che non amano più i “valori europei”. I paesi dove queste correnti antieuropee e antiliberali sono più forti sono quelli dell’Est, che solo qualche decennio fa inneggiavano alla libertà occidentale. Al sogno del ’68.
Oggi il progetto di integrazione europea fondata sui valori liberali è in grave crisi, e la faglia che divide l’Europa passa tra Est e Ovest; alcuni paesi dell’Europa centro-orientale, pur appartenendo ancora formalmente alla Ue, di fatto ne hanno rinnegato i valori. “Il progetto europeo — scrive lo storico Krastev — non sembra più l’incarnazione dell’universalismo liberale, ma si è trasformato in un triste spettacolo di chiusura e in un muro di scudi”.
L’elemento fondamentale del ’68 fu la speranza di un mondo migliore, per il quale meritava combattere e sacrificarsi. Cinquant’anni dopo di questa fiducia non rimane nulla.
Siamo forse più saggi, e non vediamo più il mondo in bianco e nero, ma siamo sicuramente più sconfortati.
Daniel Cohn-Bendit, celebre attivista del maggio francese, oggi riconosce tristemente: “Aver capito la complessità del mondo ci paralizza…”.