Nell’aprile del 1612, allorché aveva quasi completato il dipinto sulla cupola della Cappella, Cigoli rese noto a Galilei che il suo lavoro aveva riscosso il pieno apprezzamento del cardinale Serra e degli “altri” che se ne attendevano il completamento, fra i quali, probabilmente, anche Scipione Borghese, vecchio committente dello stesso pittore. Mancava all’appello solo il papa. Sappiamo che Paolo V provvide poco dopo, unendosi al corale compiacimento dei vertici pontifici rispetto alla prova d’arte fornita dell’amico dello scienziato pisano.
Fra le autorità che espressero il loro apprezzamento per la performance di Cigoli non vedo ragioni per escludere Francesco Bozio. Quest’ultimo, a differenza di suo fratello maggiore Tommaso — defunto nel dicembre del 1610, quando il frescante era all’opera solo da alcune settimane e pochi mesi prima che, al cospetto dell’astronomo gesuita Cristoforo Clavio e di tante altre illustri personalità scientifiche e politiche, avesse luogo la celebre serata dimostrativa dell’efficacia del telescopio galileiano allestita da Federico Cesi, il 14 aprile 1611, nella vigna del cardinale Innocenzo Malvasia, sul colle del Gianicolo, in margine a un banchetto d’onore per l’autore del Sidereus nuncius — visse abbastanza a lungo non solo per vedere la Luna segnata da avvallamenti e monti e crivellata di crateri ritratta a S. Maria Maggiore, ma anche per assistere, negli anni seguenti, al dilatarsi dei sospetti di eresia nei confronti di Galilei; per apprendere la notizia del decreto di condanna del copernicanesimo (5 marzo 1616) e per sapere del processo, dell’abiura, della sanzione (1633) e finanche della morte (1642) dell’autore del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632).
Nel 1637, Francesco Bozio, all’epoca settantacinquenne, si prese cura di dare alle stampe, postumo, il primo tomo in folio dei dieci che, secondo progetto originario, ne dovevano contare gli Annales antiquitatum (da Adamo a Cristo), nei quali Bozio senior aveva messo a profitto l’immensa mole dei materiali manoscritti raccolti nel corso della sua collaborazione, assistito dallo stesso Francesco, alla revisione degli Annales ecclesiastici di Cesare Baronio. Ebbene, Bozio iunior, nel dare degna veste a stampa a una prima porzione della messe di appunti di suo fratello rimasti inediti e dedicandoli a papa Urbano VIII e ai cardinali Antonio e Francesco Barberini (Linceo dal 1623 e protettore dell’Arciconfraternita delle SS. Stimmate di S. Francesco dal 1633), non si sottrasse dal rendere merito allo scienziato che, quattro anni prima, era stato condannato dal Sant’Uffizio e confinato ad Arcetri. Pur descrivendo la costituzione del cielo in aderenza al sistema aristotelico-tolemaico, quando venne a trattare della Via Lattea, l’anziano religioso della Chiesa Nuova volle dare menzione della scoperta del 1610, esponendola come una conferma del “Suspice coelum et numera stellas, si potes” (Gn 15, 5): “Praeter has stellas sunt aliae fere innumere, ut ex sacris litteris constat, ex perspicillis inventis a Galileo hoc apparet manifeste”. Testo biblico e vista umana amplificata dall’ultimo ritrovato della moderna tecnologia ottica concordavano. Le Sacre Scritture asserivano senza lasciare dubbi esegetici di sorta e il perspicillum galileiano confermava manifeste che Dio aveva posto nell’universo un’enorme congerie di stelle. Che poi ciò lasciasse presagire anche una smisurata estensione dell’universo stesso è un pensiero che l’oratoriano, come già suo fratello, forse formulò e si tenne per sé.
Nel 1612, Francesco Bozio dovette anch’egli compiacersi dell’impresa pittorica di Cigoli e dolersi che il suo Tommaso, col quale aveva condiviso ogni cosa — studi, scelta religiosa, orientamenti politici ed ecclesiologici, amicizie, letture, gravose responsabilità gestionali — non avesse potuto anch’egli ammirarla.
(3 – fine)