Come già scritto su queste pagine nel giugno scorso, c’è stata una formidabile differenza tra lo spazio dedicato dai giornali al disastro di Caporetto e quello dedicato alla rievocazione della battaglia del Piave. Ma questa differenza è destinata a diventare ancora più marcata il 4 novembre 2018, a cento anni dalla vittoria nella Grande Guerra, l’unica vittoria della storia italiana.



Rispetto alla grandezza e al significato storico dell’evento l’interesse dedicato dalle “persone con cittadinanza italiana” a questo anniversario è praticamente nullo. Si può dire, infatti che, gran parte degli italiani lo siano ancora per una questione di diritto e non culturale. Gli italiani ancora tali per autocoscienza, radici e pensiero sono una ristretta minoranza e la questione non è secondaria. Dimenticare la vittoria del 1918 significa dimenticare come l’Italia abbia superato una prova spaventosa, non cercata e non voluta ma che apparve inevitabile dato il contesto in cui maturò.



La Grande Guerra è già stata oggetto di analisi l’anno scorso in una serie di articoli qui pubblicati ai quali si rimanda. Quanto alla vittoria di Vittorio Veneto, essa deve essere oggetto di un’analisi più approfondita per liberarla sia dal mito patriottico, ormai non più credibile, sia dalla vulgata per cui sia stata una battaglia inutile su un’impero austro-ungarico ormai in via di dissoluzione. In particolare non è possibile considerare la guerra sul fronte italiano come distaccata dagli eventi della grande guerra europea.

Dopo la vittoriosa resistenza sul Grappa e sul Piave nella grande battaglia del giugno 1918 l’esito della guerra era ancora incerto tanto che, al 1° luglio 1918 l’alto comando tedesco riteneva che le condizioni minime di pace dovessero includere l’annessione del Lussemburgo e delle miniere della Francia del nord e della Lorena. Poche settimane dopo iniziava una serie di avvenimenti che dovevano portare all’improvvisa conclusione della guerra. Il 15 luglio l’ultima offensiva tedesca contro Reims veniva schiantata dalla difesa elastica francese e sempre in luglio i tedeschi subivano una cocente sconfitta a Soissons per opera dei francesi. L’8 agosto poi arrivava un’offensiva inglese condotta senza bombardamento preliminare ma con l’appoggio di 435 carri armati che sgominavano il sistema trincerato tedesco. Secondo le parole dello stesso Ludendorff, quello fu il giorno più nero dell’esercito tedesco, surclassato in capacità tecnologica ma, ancora di più, in flessibilità tattica. Tuttavia lo stesso Lloyd George, in un memoriale del 16 agosto, non prevedeva la fine della guerra entro il 1918 ma una dura campagna che sarebbe continuata per tutto il 1919 e che si sarebbe conclusa solo nel 1920. L’alto comando tedesco, invece, sapeva bene che la guerra era perduta: ciò che importava era il come, ossia imponendo al nemico le migliori condizioni ottenibili.



Dopo di allora, tuttavia, le offensive alleate condotte da luglio a ottobre fruttarono 250mila prigionieri tedeschi e una serie di sconfitte senza appello. Eppure, nonostante ciò, i tedeschi combattevano ancora su territorio francese e belga. La vera svolta avvenne su un fronte dimenticato da tutti, oggi come allora, quello bulgaro.

Se paragoniamo gli imperi centrali a una grande fortezza si può dire che tutta la Prima guerra mondiale fu una guerra d’assedio dove gli sforzi maggiori furono compiuti contro una porta d’acciaio (la Germania) anziché contro una porta di ferro (Austria-Ungheria) o di robusta quercia (Impero ottomano). Ben pochi (e, fra questi, il vituperato Luigi Cadorna che con tanti difetti si dimostrò la miglior mente strategica del comando alleato) seppero apprezzare uno sforzo deciso verso una porta di servizio, fatta di legno compensato: la Bulgaria. Ma quel momento giunse il 15 settembre quando inglesi, francesi e serbi partirono da Salonicco ed entrarono in territorio bulgaro dopo una dura battaglia.

Il 29 settembre la Bulgaria stipulava l’armistizio lasciando così scoperta la Turchia europea, la stessa Istanbul e non solo. Le truppe alleate riconquistarono tutta la Serbia e la prospettiva di un’invasione dell’Ungheria divenne una certezza. In settembre anche l’impero ottomano subiva una sconfitta catastrofica in Palestina ed era costretto a chiedere la pace, firmata a Mudros il 30 ottobre. La situazione era diventata così disperata che i generali Erich Ludendorff e Paul von Hindenburg costrinsero il cancelliere Von Baden a inviare al presidente americano Wilson un telegramma in cui si chiedeva l’armistizio: fu quello il  momento del crollo del morale della nazione germanica e in cui le richieste di Wilson sul rispetto del principio di nazionalità provocarono il dissolvimento dell’impero austroungarico. Tutte le nazionalità dell’impero, vista ormai persa la guerra, ebbero come obiettivo quello di smarcarsi rispetto all’Austria. Il 17 ottobre l’Ungheria dichiarò l’indipendenza e due settimana dopo fece altrettanto quella che divenne la Jugoslavia.

Il generale Armando Diaz dovette rompere gli indugi e organizzare una grande offensiva per ottenere la resa definitiva dell’Austria: un ulteriore ritardo e il ruolo dell’Italia sarebbe stato nullo al tavolo delle trattative e i sacrifici sopportati sarebbero stati inutili. L’offensiva ebbe come protagoniste la IV armata del generale  Gaetano Giardino e l’VIII del generale Enrico Caviglia: due comandanti di ottimo livello e che sfuggono al cliché coniato dalla vulgata corrente, del generale italiano crudele e incompetente. La IV armata si dissanguò sul Grappa perdendo 15mila uomini in tre giorni di combattimento e subì una netta sconfitta ad opera di un esercito imperiale che non aveva perso uno iota della sua combattività anche se due divisioni ungheresi si rifiutarono di andare in linea: era questo l’esito dell’avanzata in Serbia delle truppe alleate dopo la resa bulgara. L’VIII armata riuscì a costituire tre teste di ponte sul Piave dopo giorni di piena e il comando austriaco sottovalutò la minaccia, data l’estrema energia degli attacchi condotti dagli italiani sul Grappa.

Proprio da queste teste di ponte, tra Sernaglia, Mosnigo e Mariago partì l’azione di sfondamento del fronte da parte dell’VIII armata e, nella serata del 29 ottobre, la cavalleria italiana arrivava a Vittorio Veneto imbottigliando le armate austriache. Un’altra importante testa di ponte era stata costituita dalla X armata mista italo-inglese con un decisivo contributo alla vittoria. Eppure, all’estero, è ancora in vigore una storia per cui la battaglia fu vinta da inglesi e francesi nonostante si trattasse di due divisioni inglesi e una francese a fronte di 57 divisioni italiane.

Per l’esercito italiano i giorni che seguirono rappresentarono una prova di alta mobilità e flessibilità da cui dipendevano i destini della nazione. Le trattative con i plenipotenziari austriaci furono condotte in modo impeccabile dando agli italiani il tempo di raggiungere Trento e Trieste prima della fine delle ostilità. La vittoria italiana, infine, fu determinante per la resa della Germania in quanto prevedeva l’avanzata in Baviera, praticamente indifesa. Fu questo a schiantare definitivamente la volontà di resistenza tedesca, insieme all’ammutinamento della Flotta d’alto mare i cui marinai si rifiutarono di obbedire al folle ordine dell’ammiraglio von Scheer di immolarsi in un’ultima gloriosa battaglia navale.

Questa in sintesi la storia di quei giorni, questo il ruolo dell’Italia negli ultimi giorni di guerra: una storia che non interessa più a nessuno.

(1 – continua)