Un approccio non alternativo, ma diverso da quello impostato da Guido Melis nel suo recente saggio era possibile, e mi pare opportuno farne cenno. Mi riferisco al fatto che guerra e dopoguerra segnano la fine del liberalismo conquerant dell’Ottocento e del vecchio stato di diritto.
Nel recente contributo di Andrea Guiso (La Guerra di Atena. Il “luogo” della Grande guerra nell’evoluzione delle forme liberali di governo: Regno Unito, Francia, Italia, Le Monnier 2017), al fondo si percepisce quanto è, invece, esplicito — e scritto con dolente malinconia — in un autore disconosciuto e/o poco amato. Mi riferisco al prezioso Diario politico di Adriano Tilgher uscito nel 1946.
Liquidato sommariamente, per responsabilità di Eugenio Garin, come un apologeta del fascismo, non ne fu neanche un fiancheggiatore. Fu invece un liberale, più volte vittima di aggressioni squadristiche. Critico di Croce, fu però ostile a Giovanni Gentile. Amò descriversi come membro della “povera gente dell’opposizione, perseguitata dalla censura e dai sequestri” del regime.
In lui fu viva, e quasi struggente, la memoria del mondo politico che nel giovane Guiso è, mi pare, sobriamente presupposto: il rimpianto per l’epoca 1870-1914.
Si trattava di mezzo secolo cui guardavano con lo stesso struggimento personaggi come Stefan Zweig e Johan Huizinga. Allora “I principi di libertà (liberalismo e democrazia), giustizia sociale (socialismo) e nazionalità (nazionalismo) lottavano fra di loro, e nessuno era giunto né alla totale supremazia e schiantamento degli altri, né alla coscienza perfetta di sé e delle conseguenze che si cova nel seno”.
Lo “stato di eccezione” degli anni 1915-1918 finisce per subire una sorta di costituzionalizzazione. E comunque ristabilisce il primato della politica nel contesto delle esigenze e delle necessità per assicurare un equilibrio tra esercizio delle libertà e prerogative di autorità (con cadute nell’irresponsabilità vera e propria). Esse, imposte dai poteri esecutivi e tecnici allo sviluppo del conflitto, si trascinano anche dopo la sua fine, nella dialettica tra istituzioni e società, ma anche tra governi e parlamento nel dopoguerra.
In Italia (secondo Mario Isnenghi) la guerra venne vissuta come mito mobilitante contro il sistema politico liberale. Ma va rilevata una circostanza ancora più grave, cioè che “governo del popolo” (o anche democrazia) si rivela sempre più non essere sinonimo di “sovranità del popolo”.
L’istituzione che doveva rappresentarla, cioè il parlamento, si mostra alla fine inidoneo a fronteggiare i molteplici problemi della modernizzazione della società catapultatati dalla guerra sul potere politico. E’ l’esecutivo (governo e apparati amministrativi), nella tensione con i poteri delle assemblee parlamentari, a far emergere la sfiducia della classe dirigente liberale nei confronti del modello della classe discutidora (o “Government by discussion”). Per chi aveva avuto la pretesa di incarnare la sovranità popolare (e il mito della volontà generale) fu un colpo durissimo.
I critici europei del regime parlamentare (da R. Poincaré a W. Wilson, da Lord Esher a Maurice Hankey) finirono per anticipare o affiancarsi agli italiani Antonio Salandra, Sidney Sonnino e Vittorio Emanuele Orlando. A derivarne fu un clima diffuso di anti-parlamentarismo che suonò come vera e propria de-legittimazione, anzi una débâcle.
A vincere fu il rafforzamento dello Stato, che finì per incarnare la fonte di “chi compra tutto, paga tutto, remunera tutto” (Rathenau) e aveva nella guerra la propria “salute”. Si è arrivati, addirittura da un laburista come Harold Laski, a parlare addirittura di una sua “piena beatificazione”.
Il termine non è fuori luogo se si pensa che, grazie allo Stato, negli Stati Uniti di Wilson e nell’Unione Sovietica di Lenin due poli opposti (come la costruzione dello Stato del benessere nei paesi del grande capitalismo e l’impalcatura del socialismo nel paese degli zar) se ne siano avvalsi enfatizzandone funzioni e spazi di intervento.
Contestualmente, sullo sfondo della guerra ormai industrializzata, si era attuato un colpo di freno, se non un vero e proprio declino, nel processo di ampliamento dei diritti e dei poteri degli individui.
Vuol dire che ciò che l’antifascismo si accontentò di attribuire al solo Mussolini aveva, in realtà, avuto un inizio e delle ampie premesse non solo nell’esperienza italiana. Guiso documenta gli stessi problemi nel Regno Unito e nella Francia.
Le misure per contenere l’ordine pubblico, dare sicurezza, regolamentare-anche nell’espressione del voto, cioè elettoralmente, la distribuzione delle risorse e soddisfare le nuove domande (economiche e di potere) comportarono un passaggio inedito e di non breve periodo. Si può chiamarla una sopraffazione del popolo, al di là dei successi nella rappresentanza parlamentare.
Con la rarefazione delle risorse e le politiche di austerità del periodo bellico si era cominciato a restringere le reti delle libertà delle persone e della cittadinanza. Il processo si dilaterà fino a negare o rendere assai malthusiana la possibilità di godimento dei diritti politici e sociali per i meno privilegiati e per gli esclusi.
Sono corpi e soggetti molto fragili, contendibili ed esposti. A differenza di quanto era riuscito al liberalismo del maturo Ottocento, quello postbellico non riesce più ad ampliarli e neanche in molti casi a salvaguardarli.
Ciò è anche dovuto ad un fenomeno che l’innato “progressivismo” politico, cioè la mentalità liberale, non fu in grado di arrestare e neppure di arginare. La guerra, infatti, fece precipitare, rendendolo massiccio e visibile ad occhio nudo, quanto da Stuart Mill e Alexis De Tocqueville era stato pre-annunciato e temuto. Mi riferisco alla progressiva, quasi ineluttabile, sottomissione degli individui, dei cittadini (più in generale, degli esseri umani) ad una logica di sudditanza.
Si trattò dell’esplosione di un incontenibile conformismo sociale nei confronti delle gigantografie assunte dalla corporeità data a vecchi simulacri e mitologie come Nazione e Stato.
Ai riti liberali dei cittadini e degli individui “razionali” si sostituiscono le folle, masse di popolo deliranti in preda a domande spesso intinte — sia da destra sia da sinistra — di ideali soteriologici come l’“uomo nuovo”, il proletariato come “classe universale”, la crocifissione delle libertà nella palingenesi dell’eguaglianza, il primato della Nazione eccetera.
Il liberalismo scopriva la cruna del suo ago: si poteva essere tolleranti, ed accettarla, di fronte alla decisione del popolo (la sua “volontà”) di scegliere di essere governato in sua vece da un tiranno?
Detto diversamente: che fare in presenza di una maggioranza di forze anti-liberali che decidano di aprire la strada al dispotismo?
Non si deve cessare di essere severi nei confronti del dittatore Mussolini. Ma si potrà cominciare a comprenderlo, a rendersi conto della situazione in cui è costretto a muoversi un uomo politico se realisticamente si è mossi dal pessimismo sulla natura umana, anche quando si esprime nella vita associata.
Gli uomini non sono naturalmente buoni. E quando esercitano il potere mostrano quello che si chiama sadismo e Tilgher chiama una “dilettazione gratuita del dolore altrui”. Per non parlare della forza dell’odio (per lo straniero, i ricchi capitalisti, l’altra razza) su cui si sono fondati il nazionalismo, il comunismo e il razzismo.
E’ quanto si può leggere in Popper: “Il liberale non tiene conto che la servitù ha il suo fascino e la sua dolcezza, che vi sono altri valori morali che quelli della libertà, che i tiranni sanno spegnere così bene l’idea della libertà da renderne perfino odioso e ridicolo il nome”.
A sottolineare l’importanza cruciale di questo passaggio Andrea Guiso dedica una ricostruzione comparativa di rilievo: “dopo due anni e mezzo di guerra, l’idea che tali politiche di riforma sociale fossero il portato logico e inevitabile della carneficina più egualitaria che l’uomo avesse mai provocato — come dimostravano le misure di Welfare introdotte in quasi tutti i Paesi durante il conflitto — non sembrava poter essere messa più in discussione. Non è forzato, da questo punto di vista, sostenere che il 1917 avesse segnato uno dei momenti di massima consapevolezza al riguardo da parte dei governanti, impossibilitati a chiudere gli occhi di fronte al profondo mutare dei rapporti tra ordinamenti costituzionali e società di massa. Intellettuali, politici, tecnici potevano tranquillamente convenire sul fatto che la guerra stesse ormai traghettando il discorso sulla democrazia oltre le colonne d’Ercole della civitas liberale classica, dentro la quale si era formato il suo nucleo intellettuale vitale, prima di trasformarsi, durante l’Ottocento, in un campo permanente di tensione tra grandezze sempre più difficilmente componibili: libertà ed eguaglianza, diritti civili e diritti politici e sociali, qualità del comando ed estensione della partecipazione” .