Era il 1973 e avevo quattordici anni, e mi ero letto Una giornata di Ivan Denisovič. Fino ad allora, di letteratura sapevo poco, e tolti i grandi autori studiati a scuola, avevo dato un’occhiata solo a qualche pagina banale diffusa dal minculpop. Per fortuna mi sono imbattuto in Aleksandr Isaevič. Mi ha aiutato a ignorare le direttive della pseudo-intelligencija che nell’Italia di quei tempi era la “padrona del discorso”. Ricordo quando – poco tempo dopo, il 12 febbraio 1974 – Solženicyn fu espulso dall’Unione Sovietica e giunse in Germania; ad accoglierlo all’aeroporto di Francoforte era stato Heinrich Böll, cattolico inquieto, tutt’altro che conservatore, tuttavia libero da condizionamenti ideologici e capace di riconoscere il campione di una resistenza vittoriosa a quella menzogna che, ancora oggi, domina il dibbattito pseudo-culturale sulla grande stampa de noantri.
Invece, in Italia un importante personaggio del “Partito” scribacchiò un articolo cinico che uscì sull’Unità nel febbraio 1974 (e poi su Rinascita). Famoso è l’incipit: “Anche se il clamore suscitato dall’arresto di Solgenitsyn [con traslitterazione adattata, allora in uso] è venuto calando, dopo la decisione delle autorità sovietiche di privarlo della cittadinanza e di espellerlo dall’Urss; anche se alcuni giornali sono rapidamente passati dai toni declamatori e drammatici a quelli, bonari e fatui, delle curiosità sullo ‘shopping’ di Solgenitsyn per le vie di Zurigo o sulle cospicue somme da lui accumulate, grazie ai diritti d’autore, nelle banche svizzere, nessuno più di noi sente la necessità di ritornare sui problemi che il grave caso dello scrittore sovietico ha posto e pone”.
Premeva, all’autore, richiamare l’attenzione sul “fastidio politico e morale”, ma prima occorreva spargere qualche miserabile veleno contro l’esule, usando frasi concessive (“anche se..”), che di solito servono a presentare come noto e irrilevante un contenuto destinato a essere superato, tolto dal dibattito, per lasciare spazio alla tesi decisiva. Invece, nel testo citato la seconda concessiva ha un compito fondamentale: gettare fango su Solženicyn, sminuirne l’autorevolezza, deriderlo e umiliarlo, di fronte alla grandezza del noi – il Partito, che è intelletto, onore e coscienza della nostra epoca (um, čest’ i sovest’ našej èpochi).
Il compagno autore invitava infatti a riconoscere che la dirigenza sovietica aveva preso la decisione giusta; del resto, osservava, l’Urss non avrebbe potuto sopportare oltre quello scrittore, che aveva assunto “un atteggiamento di ‘sfida’ allo Stato sovietico e alle sue leggi, di totale contrapposizione, anche nella pratica, alle istituzioni, che egli non solo criticava ma si rifiutava ormai di riconoscere in qualsiasi modo”.
Persino le opere – pur fortemente antisovietiche – di Aleksandr Isaevič avrebbero potuto essere tollerate, lascia intendere l’autore dell’articolo; ma a condizione che fosse professata adesione ai principî del socialismo reale. Invece, lo scrittore rifiutava e contestava il potere sovietico: un atteggiamento ritenuto inammissibile dal Partito, che dunque approvava l’espulsione di tale persona. Anzi, lascia intendere l’autore, a Mosca sono stati fin troppo teneri: in fin dei conti, non lo avevano mica rinchiuso in un lager. Non vi era dunque motivo di lamentarsi – del resto, i lamenti in Occidente erano pretestuosi: apparivano a lui come strumenti di lotta politica contro il Partito.
All’autore dell’articolo, peraltro, non interessava la persona di Solženicyn: premeva a lui invece difendere il Partito dagli attacchi degli avversari e ribadire “la validità e verità della prospettiva che noi indichiamo: quella di uno sviluppo verso il socialismo che nasce dalle battaglie per difendere e portare avanti la democrazia, quella di una società socialista riccamente articolata e aperta ad ogni confronto”. Libertà, ma libertà dentro a una “società socialista” – e per chi non vuole il socialismo? Non è data risposta, ma è evidente che tale domanda è assurda: perché tutti vogliono il socialismo – ovviamente, quello indicato dal Partito.
Aleksandr Isaevič non riconosceva autorità alcuna al socialismo – anzi: reputava necessario che il sistema sovietico fosse smantellato, per riportare devozione verso la giustizia e la verità. Egli apparteneva alla Russia, non all’Urss. Era russo, non sovietico. Egli rivendicava la libertà in quanto uomo, non in quanto socialista. Era un individuo pericoloso per il regime totalitario cui aderiva – con i soliti furbeschi distinguo – anche la sezione italiana del potere sovietico. Vi aderiva davvero: e questo può essere colto in modo chiaro proprio dalle parole riportate, nelle quali il Partito additava la prospettiva di una società socialista “aperta”.
La barriera contro lo scrittore russo in Italia è ancora in piedi. La sua opera è ignorata. La sua testimonianza è deformata e messa in ridicolo dagli epigoni della propaganda italo-sovietica, che scrivono sui giornali del grande capitale. Solženicyn no pasará. E siccome il tempo passa, e tutto si porta dietro, l’intelligencija confida nella stanchezza e nell’indifferenza generale – quell’indifferenza che, negli anni settanta del Novecento, circondò anche un grande italianista russo, che si chiamava Jurij Vladimirovič Mal’cev. Era stato ospite di un manicomio, perché si riteneva che solo un pazzo potesse opporsi al socialismo reale. Ne era potuto uscire, e aveva ottenuto di lasciare l’Urss. Giunto in Italia, fu accolto dai pochissimi coraggiosi, che non temevano di inimicarsi l’accademia italiana, risolutamente schierata su posizioni pro-sovietiche. La sua vicenda, e tutta quanta la storia del “potere dei senza potere”, metteva in imbarazzo anche molti esponenti della cultura che si ispirava all’insegnamento della Chiesa cattolica. Le ragioni del potere e delle convenienze politiche avevano indotto a trovare compromessi di ogni genere, che esigevano il silenzio sulle persecuzioni.
Poi cambiarono i tempi, finì l’epoca sovietica, il Partito cambiò nome e così nessuno era più comunista. Contava infatti il nome, non la realtà; l’ideologo di potere sa che – alzando bene la voce per intimidire i miti e confondere gli ingenui – è possibile spacciare per fatto qualsiasi menzogna: con le parole si fanno le cose che si vogliono far credere, mentre le cose autentiche vengono private delle parole giuste. È forse comprensibile perché, in molti salotti “Ztl”, vi sia tuttora astio nei confronti dei russi che respinsero il potere sovietico e insegnarono a difendersi dalla menzogna del totalitarismo. “Vivere senza menzogna” (titolo di un’opera di Solženicyn pubblicata dalla Casa di Matriona) è un programma che non prevede compromessi con il potere che vuole riscrivere la natura umana e la storia.