Dalla camera da letto dell’appartamento dove abitavo prima, in via Garruba, settimo piano, di fronte al vecchio pastificio trasformato nella Facoltà di Lingue, non di rado capitava che sull’orlo del sonno, d’estate – le tapparelle abbassate a metà e la finestra aperta – giungesse il segnale tipico delle due note che introducono un annuncio di arrivo o di partenza dalla Stazione centrale.
Di giorno sarebbe stato impossibile distinguerlo, tra i rumori del traffico e il continuo ronzio degli studenti o degli avventori dei due bar dell’incrocio. Ma di notte, quelle notti in cui il silenzio è mosso dalla brezza umida del mare, arrivava la voce – quella voce, quando forse non c’erano ancora le sintesi vocali preregistrate, di una donna che presiedeva la notte e orchestrava il tempo. A ben pensarci, quali e quanti mai treni potevano arrivare o partire così tardi nella notte? Forse erano solo convogli di passaggio, pieni di merci, container partiti o diretti al porto. Eppure i due segnali scoccavano introducendo quella voce, ed io mi trovavo finalmente a percepire una cosa ancora più impalpabile della brezza silenziosa, e insieme più concreta dei treni che andavano passavano venivano: quella cosa così enigmatica e tuttavia così evidente che è il tempo.
In quello stato speciale di agnizione che è la soglia del sonno, quando siamo quasi addormentati, o anche quando siamo appena desti, ciò che sappiamo e che possediamo nella forma della coscienza non si trattiene più nell’ordine delle nostre consecuzioni, ma comincia a debordare; e ciò che è normalmente custodito in una certa zona e in una data sequenza della nostra memoria comincia ad associarsi liberamente, richiamando come da lontano, e risvegliando le persone, le immagini, le nozioni che gremiscono la mente, non con la pesantezza di chi debba accumulare notizie, ma con la leggerezza di chi veda il mondo dall’in su, come volando.
In una di quelle notti la signora degli annunci, la sovrana del regno che si stende da Piazza Roma sino a via De Rossi, chiamò col solito ritmo cadenzato il suo treno, perché venisse a visitarmi (era esattamente la sua ora di arrivo, finalmente senza ritardi) il vecchio Aristotele. Scoprii allora perché in effetti il grande filosofo greco arrivava sempre puntuale, giusto giusto, incrociando precisamente le attese dell’anima e le domande della ragione.
Cosa mai potrà c’entrare, mi chiederete e mi chiedo anch’io, il IV libro della Fisica di Aristotele con l’annuncio ovattato degli arrivi e delle partenze – o anche solo dei transiti, ecco sì, soprattutto dei transiti – alla Stazione di Bari centrale? Il grande greco aveva scritto che per capire il tempo bisogna partire dal movimento, dal passaggio di qualcosa che muta dalla potenza all’atto e rimane però sempre ancora in potenza verso un’altra attuazione… Eppure questo movimento, in sé, non è ancora tempo, perché per capire il tempo bisogna che quel che passa, che si muove, che muta, venga misurato come un passaggio dal “prima” al “dopo”. Ma in sé non esiste qualcosa come il prima, il durante e il dopo: essi esistono solo perché ci sono io – c’è un’anima, una psyché – che li misura. È questa misura, il tempo. O meglio, il tempo è questo esser misurato del movimento da parte di un’anima, da una voce, dalla voce della misteriosa annunciatrice che dice al movimento di volta in volta la sua misura, e in base a questa misura fa venire e fa partire.
Questo è il mistero che abita la Stazione centrale di Bari (non so dire se anche quelle delle altre città, ma della mia sì, ne sono certo): l’enigma del tempo, che è come la voce dell’annuncio. Facendo vibrare l’aria sino alla mia camera da letto, la voce del tempo apre una profondità inedita allo spazio, una quarta dimensione che lo rende vissuto. È il tempo quello che rende esperienza lo spazio, perché non ce lo fa vedere solo come una geometria di grandezze, di astratti rapporti meccanici, ma come il racconto di una storia vivente, il movimento in cui ciascuno di noi è sempre implicato, anche solo misurando e contando. – Ma che ore sono? Com’è che non dormi ancora? Troppo caffè oggi?
Ma cosa si conta col tempo? Il passato, forse: ma il passato non esiste, non è più. Il futuro allora: ma il futuro non esiste, non è ancora. Dunque il presente: Benedetto presente, perché nell’istante in cui cerco di fissarlo è già andato, è il luogo in cui qualcosa arriva per passare, arriva passando e se ne va. Ma dove va? Si dissolve nel nulla o rimane da qualche parte? Stavo cedendo al sonno quando Aristotele – non io, ve l’assicuro, ma lui, con una decisione cui non potevo che assentire – ha chiamato da lontano Agostino. Quell’Agostino che nell’XI libro delle Confessioni ha scritto che il tempo è misurato non fuori di noi, ma in noi, nel nostro animo. E ancora di più: ciò che rimane del tempo che passa, il suo “essere” stesso è la vita della mia stessa mente, il cuore del mio io. Il passato resta, come memoria, il futuro è anticipato come attesa, il presente è vivo nella mia attenzione alla realtà che mi accade ora.
E ora, posso addormentarmi; ora viene finalmente l’ultimo tratto che mi fa scivolare nel sonno. Stupito e lieto, avendo scoperto che domani ritroverò il tempo che adesso mi sembra di lasciare. Anche se al risveglio la voce dell’annunciatrice non potrò più sentirla, per il mormorio continuo delle voci e dei rumori. Non saprò ridirlo forse questo mistero, ma lo vivrò, lo sarò come ogni mattina, aspettando la prossima notte buona per accorgermi del suo dono.