I giornali hanno dato rilievo alla notizia che all’Università di Yale il corso più seguito in 316 anni della sua storia è quello di “Happiness”. Il vero titolo del corso è in realtà “Psychology and the Good Life” ed è tenuto da Laurie Santos, professoressa di psicologia e scienze cognitive, con l’obiettivo di migliorare le prestazioni, avere uno stile di vita positivo e diminuire lo stress. Non sono del tutto sicuro che migliorare le prestazioni mi renda felice e non ho nessuna idea di cosa voglia dire avere uno stile di vita positivo. Ma tant’è, la cosa  non stupisce se si pensa che esistono corsi universitari ed intere aree di ricerca sugli Happiness Studies e persino una rivista scientifica intitolata Journal of Happiness Studies il cui obiettivo è “scientific understanding of subjective well-being”. Aggiungiamo che nel 1999 Sonya Lyubomirsky e Heidi Lepper hanno elaborato una “Subjective Happiness Scale” e che nel Luglio 2011 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione intitolata Happiness: Towards a Holistic Definition of Development con la quale invitava i paesi membri a misurare la felicità delle loro popolazioni. All’invito è seguito, nel 2012, il primo incontro delle Nazioni Unite su “Wellbeing and Happiness: Defining a New Economic Paradigm”. Non c’è che dire, la felicità è diventata un tema centrale di questa nostra contemporaneità.



Ho sempre dei problemi con i termini astratti se non si trova un modo di ricondurli a esperienze concrete. Come mi accade spesso, una riflessione su come questi concetti possano essere espressi in contesti linguistici diversi mi può aiutare a comprendere qualcosa che altrimenti sfugge.

Happiness è il sostantivo di happy, termine del tardo XIV secolo che indica “prospero”, “fortunato” ma anche “favorito dal destino”. Deriva dal medio inglese hap, happe. Per happ- è ipotizzata una forma protogermanica *hap che continua una radice indoeuropea ricostruita *kob e questa è correlata a un’area concettuale che racchiude i valori di fortuna, occasione, profezia, ma anche piegare, riuscire. È un concetto polivalente che comunque ha a che fare con la fortuna, è il caso che può prendere una buona piega, è qualcosa che speriamo ci accada. In italiano traduciamo happiness con felicità che viene dal latino felix, felicitas e ci sono, come sempre, somiglianze e differenze. I due termini latini provengono da una voce indoeuropea che significa “succhiare”. In latino essa diventa fe, si tratta di una radice che, come scrive Émile Benveniste, rimanda al greco the, il cui primo significato è fertilità, prosperità, e che ritroviamo in parole diversissime come fetus, fecundus, ferax, femina, filius. Che sia un termine che riguardi la fertilità è confermato dal fatto che proviene dal lessico agreste. L’Arabia è felix proprio perché fertile, come ci dice Plinio il Vecchio, così è felix il dio Vertumno, dio dei campi di origine etrusca. Il passaggio verso il senso figurato e astratto si avrà con Cicerone e Seneca, nel contesto di un linguaggio più propriamente filosofico. L’idea della fertilità ci porta a un desiderio di compimento, è felice chi può raggiungere questa pienezza feconda.



Un altro termine latino per indicare la felicità è beatus che è il participio perfetto del verbo latino beo il cui significato proprio è “stare a bocca aperta” ma che significa anche “riempire”, dunque è felice chi è pieno di qualcosa, o chi è in cammino verso questa pienezza. Il latino ha anche il termine fortuna che originariamente ha un senso ampio e vale sia la buona che per la cattiva sorte. Successivamente è passato a indicare soprattutto la buona sorte e con questo significato è arrivato alle lingue romanze. L’ambiguità originaria del termine fortuna è però interessante perché ci ricorda che la fortuna è instabile e che questa instabilità deriva dal fatto che noi non siamo in grado di governare i fattori esterni. La felicità, in questo senso, è qualcosa a cui, certo, possiamo aspirare ma che non siamo sicuri di poter toccare.



La Grecia classica ci viene in aiuto con una varietà di termini che sono utili per comprendere le sfumature di questo concetto.

In Omero, quando parliamo di felicità, troviamo i termini olbos/olbios che si riferiscono alla felicità in quanto prosperità, ricchezza dei beni posseduti, perché questi mostrano una vita buona.

Olbos/olbios sono stati progressivamente sostituiti da eudaimonia. Si tratta di un termine composto con l’avverbio eu nel senso di bene e daimon. Daimon rimanda all’italiano “demone”, ed ha un significato complesso. Ha la radice del verbo greco daiomai, “distribuire” e dunque riguarda la sorte che gli dei distribuiscono ai mortali. C’è il significato di “divinità”, ma nel significato entra anche il destino che ci è riservato perché questo dipende dal potere che il dio ha su di noi. È il dio che ci governa, se è un dio che ci sostiene con la sua benevolenza avremo un buon destino e saremo felici. L’uomo felice è colui che ha avuto in sorte un “buon demone”, cioè la benevolenza di un essere sovrannaturale, quindi un buon destino. In questo senso la felicità è qualcosa che può indicarci un cammino ma che noi non siamo in grado di controllare perché destinataci da un essere superiore. È il desiderio di felicità che viene dal dio che ci conduce a una buona vita, ma questa non è assicurata. Il nostro modo di stare nella vita è la via per far sì che il dio ci conceda questa felicità. 

Ricorderei che Eraclito (Frammento 119) dice che il carattere di un uomo coincide con il suo destino, in questo senso il nostro stare al mondo può condurci alla felicità perché ci fa mettere in gioco con tutto noi stessi.

Un punto interessante è che in greco esiste una felicità per così dire riservata agli dei. Abbiamo infatti Màkar (makariotes), gli dei sono Hoi Makares in quanto non lavorano e non muoiono, come in Omero nell’Odissea. È il compimento cui gli uomini possono aspirare e raggiungere solo dopo la morte. Nelle Opere e Giorni di Esiodo, il termine viene riferito agli uomini che muoiono e raggiungono le isole dei beati, divenendo come gli dei. È il punto finale del nostro desiderio di completezza del non essere solo per la morte, come direbbe Paul Ricoeur. Non viviamo solo per morire perché disperatamente e ostinatamente sentiamo che al fondo c’è un oltre che desideriamo. Makàrios è più tardo (da cui “magari”, cioè una felicità che speriamo), Platone lo riferisce agli abitanti della repubblica ideale, Aristotele lo riserva ancora ai soli dei.

Quello che mi sembra si possa comprendere da questo troppo rapido e ridicolmente incompleto excursus è che ci sono molti modi di guardare alla felicità ma c’è qualcosa che li accomuna tutti. C’è l’idea che la felicità è una speranza, un augurio dunque ma anche un’attesa. Il desiderio di pienezza, la tensione verso un compimento che guida la nostra vita, il sentimento che siamo fatti per qualcosa di più del successo che possiamo ottenere nelle nostre attività quotidiane attraverso il miglioramento delle nostre prestazioni. Che anzi questo non ci completa. La felicità dunque come orizzonte che ci inquieta perché non è mai un dato ma un cammino. 

Giussani in Realtà e giovinezza. La sfida scrive: “La felicità è la realizzazione totale e intera di ciò cui aspiriamo, di ciò che desideriamo; (…) è l’adempimento dell’esigenza di verità, di giustizia, di bellezza, di amore”. E poche righe sotto, giusto per non correre il rischio di trasformare un ragionamento complesso in parole d’ordine: “Pretendere la felicità nella vita è un sogno. Vivere la vita camminando verso la felicità è un ideale”.